Passione sponsale

Quaderno 7 – Alla radice del male dell’uomo moderno sta il misconoscimento del segreto dell’amore di Dio: una passione infinita che ci perdona, che ci stima e che ci attrae a Sé. Da una meditazione del giovedì santo in casa di formazione.

Dionisio, «Crocifissione» (1500, part.), Galleria Tretyakov, Mosca

Signore, ecco, il tuo amico è malato (Gv 11,3). Le parole che le sorelle di Lazzaro mandano a dire a Gesù offrono una descrizione perfetta dell’uomo contemporaneo.

In che cosa consiste questa malattia? Si può descrivere sinteticamente così: è come se l’uomo non riuscisse più a voler bene a se stesso. C’è una strana insofferenza nei confronti della propria umanità. Oggi l’uomo sperimenta uno strano e innaturale scandalo di fronte all’aspetto di limite che l’esistenza umana porta con sé, che la carne e il sangue della nostra esistenza portano in sé. Basti pensare al successo universale dell’ideologia gender. Il fatto che io non posso essere donna, anche se volessi esserlo, è un limite. Essere uomini significa essere limitati. Significa, in altre parole, in un certo modo, non essere “tutto”, non essere Dio.
Nei giovani che incontro, mi colpisce sempre di più questo fatto: ogni insuccesso, in qualunque campo, ogni esperienza del proprio limite, ha il sapore di una tragedia. Diviene motivo di depressione. Da dove viene questa estrema vulnerabilità? A mio avviso, da una sorta di strano, sempre più inconsciamente diffuso, pregiudizio: dalla pretesa di essere Dio, dall’idea che io sia e debba essere onnipotente. Paradossalmente, l’insopportabilità del proprio limite non è dovuta all’essere limitati, ma all’immagine astratta, disincarnata che abbiamo di noi stessi e che il limite sembra contestare.

C’è una differenza tra il mondo di oggi e quello in cui il Cristianesimo ha attecchito all’inizio della sua storia: l’uomo pagano antico, pre-cristiano, era in un certo senso più forte, più corazzato dell’uomo di oggi. E lo era anche perché aveva uno sguardo diverso sul proprio limite. Per l’uomo greco il limite era un’evidenza, un dato inesorabile, ferreo: basta leggere i tragici per rendersene conto. Secondo la mentalità antica l’uomo è uomo proprio in quanto non è un dio: «Conosci te stesso», dice il motto delfico. Stai al tuo posto. Se l’uomo accetta il suo limite, allora trova la saggezza, l’equilibrio. Chi varca la misura, invece, esce dal regno olimpico della luce e cade nel regno caotico della bestialità.
Celso, filosofo del II secolo, deride i cristiani esattamente per questo: per la loro megalomania, perché si sentono al centro dell’universo. Gregorio di Nissa, alla fine del IV secolo, usa le parole del motto delfico invertendone completamente il senso: «Conosci te stesso, o uomo: il cielo, le stelle, tutto l’universo non sono niente rispetto a te. Poiché tu solo puoi contenere l’Infinito Dio» (Omelie sul Cantico dei Cantici, II).
È Gesù Cristo che ha dato all’uomo il sentimento della propria infinità: «Gesù Cristo ha portato l’infinito dappertutto», scrive Péguy (cfr. Véronique, Casale Monferrato 2002, p. 256). È vero che l’uomo aspira ad essere “divino” per natura. Guardando, però, alla condizione meschina in cui storicamente si trova, l’uomo greco sente, col suo profondo buon senso, il bisogno di difendersi da speranze eccessive.
Ecco ciò che più sconcerta: la malattia sopra descritta non si trova nell’uomo pre-cristiano, ma si rileva solo nell’uomo post-cristiano. L’uomo antico aveva un suo equilibrio. Triste, ma pur sempre un equilibrio. L’uomo post-cristiano lo ha perduto, non sopporta più di non essere divino. È quanto Nietzsche fa dire a Zarathustra: «Lasciate amici che vi apra il mio cuore: se esistessero dei, come io potrei sopportare di non essere un dio?» (Così parlo Zarathustra, Milano 1987, p. 101). Che ce lo confessiamo o no, che lo riconosciamo più o meno chiaramente, tutti noi figli dell’occidente abbiamo dentro questa domanda.

L’aspetto tragico del pensiero di Nietzsche non sta in questo desiderio di essere divino, perché lo ha ricevuto da Gesù; sta, piuttosto, nell’aver perso di vista l’unico che può saziare davvero l’umana sete di grandezza. Quest’unico si chiama Gesù Cristo.

L’aspetto tragico del pensiero di Nietzsche non sta in questo desiderio di essere divino, perché lo ha ricevuto da Gesù; sta, piuttosto, nell’aver perso di vista l’unico che può saziare davvero l’umana sete di grandezza in un modo assai più sublime di Zarathustra, un modo che non richiede di abbattere i limiti dell’umana natura. Quest’unico si chiama Gesù Cristo. Per questo il Padre lo ha mandato: per farci gustare e vedere il valore infinito che questa cosa polverosa e sanguinante che è il nostro io davvero possiede, senza bisogno di alcuna tecnologica modifica.
Gli ultimi capitoli del vangelo di Giovanni, dal 13 al 19, che raccontano l’ultima cena e la passione del Signore, sono come un crescendo in cui Gesù ci apre progressivamente il contenuto più intimo del suo cuore. E questo contenuto è l’Amore di Dio per l’uomo. Un Altro in realtà ha anticipato Nietzsche e il suo Zarathustra: “Lascia, amico, che io ti apra il mio cuore. Io non posso più sopportare che tu non sia un dio. Non posso più sopportare che tu ti senta più in basso di me. Non posso più sopportare che tu non sappia chi sei nel Mio cuore. Per questo io squarcio il mio cuore: perché tu vi attinga il vino della vera gioia. Gli uomini bevono il vino per dimenticare le proprie ferite, le proprie umiliazioni. Per dimenticare se stessi, per uscire da se stessi. Il vino che sgorga dalla mia passione, il vino che sgorga dal mio petto fa di più. Anch’esso fa cantare, ma senza bisogno di dimenticare. Anch’esso ti fa uscire da te stesso, ma per portarti nel luogo da cui puoi vedere l’infinito che già sei agli occhi di Dio”.

* * *

Vorrei adesso, con l’aiuto del vangelo di Giovanni, cercare di contemplare il tratto più sconvolgente di questo amore di Dio, che nel mistero pasquale ci si apre davanti agli occhi. Questo tratto dell’amore di Dio può essere definito passione sponsale.
Proprio qui si trova una delle risposte più convincenti a Nietzsche e perciò anche la medicina capace di guarire l’uomo di oggi, risentito e malato di frustrazione. Il problema dell’uomo d’oggi sta nel fatto che l’obbedienza è sentita in opposizione al proprio desiderio di libertà. La negazione d’ogni limite, però, non può dare la libertà, semplicemente perché si fonda sulla negazione di un fatto inesorabile: io sono pieno di limitazioni. Deve esserci dunque un altro modo di guardare al proprio limite. Un modo che lo renda bello e buono, persino amabile, anche quando doloroso.
Questo modo diverso di guardare al nostro limite ci si rivela nella misura in cui entriamo in un altro punto di vista: quello che nasce dall’essere “feriti” dalla bellezza di Cristo, cioè dalla conoscenza dell’Amore di Dio per l’uomo che in Cristo si può vedere, toccare, contemplare.

Fino all’estremo

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino all’estremo (Gv 13,1).
L’ora è giunta. Gesù sa che il suo destino si sta per compiere. Giovanni però non ci parla, a proposito di quest’ora, né di paura né di angoscia. Ciò che in quest’ora domina il cuore del Signore non è l’angoscia del buio che lo assedia, ma, al contrario, la brama di rivelare ai suoi tutta l’intensità, l’ardore immenso del suo Amore, di farlo scoppiare fuori dal Suo cuore, come il sangue e l’acqua che al colpo di lancia del soldato sprizzeranno fuori dal Suo corpo sulla croce.
C’è solo un accenno al suo turbamento, nel capitolo 12. Giovanni però lo lascia sullo sfondo, come fosse scacciato dalla forza di questo fuoco che gli brucia dentro: E che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! (Gv 12,27). Per questo. Gesù, nella profondità del suo essere, ha desiderato quest’ora: non perché avesse sete di soffrire, ma perché in questa ora suprema deve apparire ciò che è ultimo, ciò oltre cui non c’è più nulla da dire, da mostrare, da dare a gustare ovvero l’amore perfetto fino all’estremo, eis to telos.

Giovanni ci fa capire tutto questo attraverso il tema dell’ora di Gesù, con cui si apre il capitolo 13 e che ci riporta all’inizio, al dialogo con sua madre, alle nozze di Cana. Sua madre gli disse: Non hanno più vino (cfr. Gv 2,3), non hanno più di che gioire, più nulla che dia loro gioia. Gesù rispose: Che ho a che fare con te, donna? Non è ancora giunta la mia ora (cfr. Gv 2,4). Questa strana risposta diviene ora comprensibile. Gesù pensa fin dall’inizio a un altro vino che è venuto a produrre. E ad altre nozze che è venuto a consumare: le Sue.
Ecco, allora, il senso della tensione di Gesù verso la sua ora. È la brama di uno Sposo: Li amò fino all’estremo – eis to telos – che significa anche fino alla perfezione, fino alla consumazione piena dell’unità.
Sì, l’amore di cui qui si parla non è amore generico, è amore sponsale. È amore che brama la completa unione, che vuole abbattere ogni distanza: «Eros è estatico – ha scritto Dionigi Areopagita -, non permette all’amante di rimanere in se stesso, ma lo spinge ad unirsi all’amato» (De divinis nominibus, IV, 13). Questa è l’idea centrale di Giovanni: il Signore va incontro alla passione per coronare il Suo desiderio di unione con noi.

Questa è l’idea centrale di Giovanni: il Signore va incontro alla passione per coronare il Suo desiderio di unione con noi.

Tuttavia Giovanni non usa, né qui né mai altrove, il verbo erao, da cui eros, che definisce l’amore passionale, l’amore di mancanza. Usa, invece, il termine agapao, che indica amore di gratuità, dono di sé gratuito. Intravediamo, così, che questa brama di Cristo è diversa, anzi per un certo verso opposta alla brama di ogni comune amante. Non è in realtà desiderio mosso dal bisogno, poiché Egli è Dio e perciò non ha bisogno di niente. È, invece, desiderio che fiotta dal cuore stesso della Sua gratuità, dall’eccesso stesso, per così dire, della Sua generosità. È, cioè, desiderio di darci tutto se stesso, di versare in noi la sua gloria, la sua vita divina. Nello stesso tempo, quella di Gesù è una passione reale. Anzi, è passione infinita. E questo è l’aspetto più grande da capire: Dio non solo si dà totalmente a noi e per noi, ma è come se dentro questa serena bontà, questa placida bontà, ci fosse un sentimento, un bruciore, una passione di intensità infinita. Sembra un dettaglio, ma non lo è.
Don Giussani lo dice con altre parole. Dice che attraverso Cristo noi scopriamo che Dio non è appena dono di sé, ma dono di sé commosso (cfr. Si può vivere così?, Milano 2007, p. 332). E questo “commosso” indica una passione, un pathos, uno struggimento: «Dio soffre una passione d’amore», dice Origene (Omelie su Ezechiele, VI, 6).

Fallo più in fretta

Cerchiamo allora di seguire passo passo il rivelarsi di questa passione d’amore, guidati dal racconto di Giovanni. C’è un momento, nel racconto giovanneo dell’ultima cena, che ha, agli occhi di Giovanni, un’importanza eccezionale: il momento in cui lui poggia il capo sul petto del Signore, per vedere dentro il Suo cuore.

Dette queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e, apertamente, così dichiarò: “In verità, in verità vi dico che uno di voi mi tradirà”. I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo di chi parlasse. Ora, a tavola, inclinato sul petto di Gesù, stava uno dei discepoli, quello che Gesù amava. Simon Pietro gli fece cenno di domandare chi fosse colui del quale parlava. Egli, chinatosi sul petto di Gesù, gli domandò: “Signore, chi è?”. Gesù rispose: “È quello al quale darò il boccone dopo averlo intinto”. E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Per cui Gesù gli disse: “Quel che stai facendo, fallo più in fretta”. Ma nessuno dei commensali comprese perché gli avesse detto così. Difatti alcuni pensavano che, siccome Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto: “Compra quel che ci occorre per la festa”; ovvero che desse qualcosa ai poveri. Egli dunque, preso il boccone, uscì subito; ed era notte (Gv 13, 21-30).

Quello che stai facendo, fallo più in fretta. Giovanni sottolinea che nessuno capisce il senso delle parole di Gesù. Eppure è strano che l’evangelista lo sottolinei, perché se c’è uno che dovrebbe aver capito, è proprio lui. Giovanni sa che cosa sta andando a fare Giuda, ma neanche lui comprende il senso profondo delle parole di Gesù. Per lui, quel desiderio, quella fretta di Gesù di andare incontro al suo destino sono ancora incomprensibili. Dopo la Pasqua, però, quelle parole gli torneranno in mente e allora capirà. Questa è la scoperta abissale che Giovanni ha fatto poggiando la testa sul cuore del Signore: Egli non solo fu pronto, disposto a dare la Sua vita, ma aveva fretta di donarla, come un amante impaziente. Ed è come se il chiudersi dell’uomo nel “no” più glaciale, il congelarsi del cuore di Giuda, non potesse produrre nel cuore di Cristo altro effetto che l’acutizzarsi, l’intensificarsi del fuoco del suo Amore. Di fronte all’uomo che Lo pugnala, che sputa sul boccone dell’amicizia, la risposta di Cristo non è semplicemente il perdono, ma, come un “contrattacco” amoroso, lo scatenarsi di una donazione totale. Non è a Giuda, dunque, che Gesù si rivolge, ma piuttosto a Satana che ne ha appena preso possesso. Come un cavaliere provocato dal gesto di sfida del nemico, così Gesù, con sublime ironia, lo invita ad affrettare ciò che crede essere la sua vittoria e che invece sarà la sua rovina!

Fallo più in fretta: il testo greco non dice semplicemente «in fretta», ma «più in fretta», come se qui ci fosse un’accelerazione, un crescendo di impazienza che proprio la vista amara della perdita (definitiva?) di uno dei suoi fa scattare in Gesù.
Così comprendiamo: l’ora di Gesù è l’ora che Dio attende da sempre con impazienza infinita. Dio ha pazienza con noi, con i tempi della nostra libertà; ma quanto a Sé, il suo Amore freme sempre di impazienza infinita.
Non dovremmo stancarci mai di guardare a questo tratto dell’amore di Dio. Molto dell’incredulità, dello scetticismo nostro nasce dal non vedere, dal non tenere davanti agli occhi della nostra memoria questa “fretta” di Cristo. Ma questo Dio, che tanto mi ama, dove è? Perché tace? Perché mi lascia qui a soffrire? Perché non risponde? Torneremo più avanti su queste domande essenziali. Per ora possiamo dire con certezza che quando tace, Dio si sta trattenendo. O non ci ama, oppure il suo silenzio non può essere che un trattenersi, deve essere un trattenersi. O quel che vediamo in Cristo è falso, è una fiaba per bambini, oppure la verità di ciò che l’Infinito Dio in questo momento sente per me, qualsiasi cosa io abbia fatto, qualsiasi peccato abbia commesso, si vede in questa fretta di Cristo di andare a morire per noi: «Dio è fuoco», dice ancora Origene (I principi, II, 8, 3).

Il Signore si chiama Geloso

Ma facciamo ancora un passo in avanti. Perché Gesù ha fretta di andare a morire? Perché, per unirmi a sé, per darmi se stesso, il suo Spirito, egli deve morire? Perché il fuoco della sua passione si esprime in questo modo così strano?
Il Signore si chiama Geloso (Es 34,14). Sta scritto sulle tavole della Legge. Che cosa vuol dire? Vuol dire che Israele cade continuamente sotto la schiavitù di altri signori e Dio non sopporta che il suo popolo appartenga ad altri che a lui. Non sopporta che il suo popolo sia umiliato, immeschinito sotto il giogo del faraone. Così, al tratto della gelosia si collega quello della collera di Iahvè. La collera del Signore è, in realtà, l’altra faccia del suo amore, del suo desiderio di unire a sé il suo popolo. Il Suo amore diviene così furia distruttiva. Egli scende in Egitto e la sua collera abbatte, frantuma, devasta: Il Signore è un guerriero, Signore è il suo nome. I carri del Faraone e il suo esercito li ha scagliati nel mare e i suoi combattenti furono sommersi. (Es 15,3-4).

Il faraone non era che un’immagine. Il vero rivale è un altro: il principe della menzogna, lo chiama Giovanni (cfr. Gv 8,44). Il vero Egitto è il mondo stesso. E il diavolo è il vero faraone che tiene l’umanità schiava della menzogna, lontana dal suo legittimo Signore. Ma lo Sposo viene. Viene a scatenare la Sua gelosia: forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la gelosia (cfr. Ct 8,6). Viene a riprendersi ciò che è suo.
Comprendiamo meglio, così, che cosa sia questa impazienza, che è come se si scatenasse proprio nel momento in cui Satana entra in Giuda: è il fuoco della gelosia di Dio, che si accende proprio quando Egli si vede sottrarre dall’avversario uno dei Suoi, come con un colpo di coda.
Questa collera, questa gelosia, si sfoga sulla croce. È sulla croce, infatti, che Gesù annienta ciò che gli impedisce di unirsi a noi: ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Ed io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,31-32).

Anche questo aspetto è fondamentale: l’Amore di Cristo è fuoco che divora, che ha cioè il potere di annientare ciò che gli si oppone. Come osserva acutamente Spaemann, il cristiano “moderno” crede volentieri al Dio compassionevole, che “perdona”, ma meno al Dio davvero Onnipotente (cfr. La ragionevolezza della fede in Dio). Se Dio è onnipotente, perché permette così tanto male? Ma un Amore divino che non avesse la forza di bruciare il male non sarebbe affatto divino perché impotente, sarebbe amore frustrato e frustrante, poiché non riesce ad unire a sé l’amato. L’Amore di Cristo, invece, è onnipotente. Giovanni ce lo dice in un modo che ha dentro come una sfumatura spettacolare: Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19,28-30).
Qui si adempie il salmo 69: Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto (cfr. Sal 69,22). Gesù beve tutto il veleno, l’aceto dell’ingratitudine, dell’odio, del peccato dell’uomo. Ma proprio così lo prosciuga. È questo uno degli esempi più spettacolari di “ironia” giovannea: proprio nel bere volontariamente l’aceto, simbolo del cuore “avariato” dell’umanità, Gesù placa, a livello profondo, la Sua sete più intensa: la sete di eliminare tutto quello che gli impedisce di unirsi a noi, di donarci la comunione con Sé. Per questo può dire Tutto è compiuto! solo dopo aver bevuto l’aceto.

In un certo senso, è proprio qui che il movimento estatico dell’amore di cui parlava Dionigi si compie fino in fondo: san Paolo arriva a dire che Gesù sulla croce è stato fatto peccato (cfr. 2Cor 5,21). Non perché ha peccato. Ma perché la potenza dell’amore lo ha portato a “diventare”, a rendere realmente Suo, come uno sposo, tutto ciò che è mio, anche il peso del male. Ma qui sta l’“ironia”, proprio questo è il modo in cui Egli lo distrugge: la stessa sete divorante che lo porta a chiedere l’aceto, a volerlo bere fino in fondo, è anche il fuoco che lo prosciuga nella Sua fiamma.
Ecco allora la sfumatura spettacolare: il male qui non è semplicemente perdonato, ma è come distrutto all’interno di questo movimento passionale, di questo movimento estatico di Dio verso di noi, verso di me. È questo che Giovanni ci dice: non è semplicemente che il Signore mi perdona, è di più. Il Signore non guarda neanche ai miei peccati, non li vede neanche: è come se li divorasse nel fuoco della Sua sete di riavermi. È tutta un’altra cosa. Quante volte don Giussani ci ha aiutato a capire questo, commentando il “sì” di Pietro (cfr. Gv 21,15-17)!
Come può Dio amarmi? Sono marcio, pieno di difetti e peccati. Ma Lui non fissa il suo sguardo su questo. Non che per Lui non esista il peccato, anzi, esso esiste infinitamente di più per Lui che per noi. Ma è come se Lui non lo guardasse. Egli guarda solo alla meta finale, alla felicità di riaverci. E tutto ciò che c’è in mezzo è come risucchiato nella fornace di questa sua sete. A noi resta solo di permettergli di agire.
Giovanni ci svela tutto ciò anche attraverso un altro particolare meraviglioso, nel racconto della lavanda dei piedi: Mentre cenavano Gesù si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse (cfr. Gv 13,4). Giovanni non dice: prima che ebbero cenato. Ma mentre cenavano. La lavanda, dunque, non è una specie di premessa al banchetto, come se prima dovessimo essere puri per poi banchettare con Cristo, per poter gioire di Lui e dargli gioia. Non è così. Al contrario, la lavanda dei piedi è parte del banchetto. È in mezzo al banchetto. Egli gode nell’abbassarsi per me. È una gioia per Lui. Proprio lasciandomi lavare, allora, io non solo faccio la volontà di Dio, ma gli do gioia.

Mi ami tu?

L’ultimo passo è il più importante, quello che ci riporta alla domanda di Nietzsche da cui siamo partiti.
Tutto è compiuto. Bruciato via tutto il “veleno” che impediva l’unione tra noi e Lui, Egli può ora riposare. Ma la sete di Gesù è veramente tutta saziata?
No, non ancora. Rimane qualcosa che ancora gli manca, di cui ha ancora sete e alla cui conquista mirava tutta la Sua maestosa azione di “conquista”. Questo qualcosa che ancora gli manca e che non può prendersi da se stesso è il mio libero “sì”, la mia “resa”.
E questo è l’ultimo, grande aspetto che dobbiamo contemplare. Qui tutto si riannoda: come possa conciliarsi la forza spaventosa di questo fuoco che tutto distrugge, l’impeto di questa passione immensa, con la castità, con il rispetto più assoluto della nostra libertà. È come se tutto il movimento maestoso e violento che abbiamo descritto si bloccasse di schianto sul limite della mia libertà, per inginocchiarsi davanti a me e mendicare il mio “sì”. Quando ho la grazia di vedere insieme, in simultanea, queste due cose, è allora che comincio a capire chi sono. Passione e castità, impazienza e pazienza: questo è forse il mistero più grande, più dolce in cui nuotare, è ciò che don Giussani, nella sua ultima lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione, ha chiamato «verginità di Dio» (cfr. Commossi dall’infinito. Lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione, 22 giugno 2003).
Con un occhio devo sempre guardare l’impazienza di Cristo. Se non vedo l’impazienza e la passione, non vedo l’intensità con cui sono amato. Con l’altro occhio devo però guardare la pazienza, la “castità”, il rispetto, poiché se non colgo questo, io non arrivo a vedere il dono più grande che Dio mi fa, che è esattamente il potere di dargli gioia. Se non ci fosse questo fermarsi di Dio, non ci sarebbe spazio per il mio “sì”. E invece per Dio questo “sì” ha un valore infinito. Mi ami tu? (cfr. Gv 21,15): tutto avviene perché io possa essere messo di fronte a questa domanda. Esiste solo questa domanda, semplice e drammatica.

Ecco, allora, l’ultimo significato della sete di Cristo. Che cosa posso dare io a Dio che lui non ha? Nulla. Io non sono che un vaso vuoto, sono io che ho bisogno di lui. Eppure lui non può riempirmi di sé, se io non mi apro a lui. C’è quindi qualcosa che posso dare a Dio: il mio “sì”, “eccomi”.
Capiamo dunque il paradosso: proprio quell’obbedienza che Dio mi chiede, mendicando il mio sì, è in realtà l’atto con cui io divento infinitamente creativo, con cui collaboro al compimento della Creazione. Dio non può completare il suo disegno sul mondo senza il mio “si”. In effetti, non può trasfigurare il mondo, quel pezzo di mondo dove mi chiama a vivere e lavorare, se non attraverso di me. Non c’è in realtà opposizione tra obbedienza e libera creatività, tra passivo ricevere e desiderio di essere potenti come Dio, capaci di “creare” come Dio. Non c’è opposizione perché la creatura esiste da sempre come il termine del desiderio “sponsale” di Dio: con il mio “sì”, io posso completare l’opera di Dio, posso arricchirlo dei sempre nuovi frutti della sinergia, per così dire, tra la Sua grazia e la mia libertà. Se questo è vero, però, possiamo allora compiere un passo ancor più “ironicamente” ardito! In realtà sono proprio i limiti che Dio mi dà, assegnandomi un determinato “posto” e non un altro – che magari vorrei…–, sono proprio quei limiti, a volte anche dolorosi, il luogo supremo della mia potenziale, “infinita” grandezza. Proprio lì, infatti, più ancora che in ogni altro luogo, l’Infinito Dio maggiormente rischia su di me, investe sulla mia libertà, si fa mendicante della mia libertà. Proprio in quella “richiesta” di sacrificio, di accettare un sacrificio – vuoi fare questo per me, anche se ti costa? – Egli mi innalza al Suo livello, anzi, in un certo senso, al di sopra di sé: Egli diviene l’assetato che io – che non sono niente – posso dissetare. Se non mi chiedesse nulla, nessun sacrificio, se non mi limitasse in nulla, Dio non potrebbe indossare i panni di Colui che davvero mendica amore; Se non mi chiedesse sacrifici, paradossalmente Dio non si esporrebbe mai al rischio del mio “no”… e allora non potrebbe mai elevarmi davvero al suo livello.

Ecco la cosa fantastica: in realtà, fin dall’inizio, Dio non ha posto ad Adamo un divieto – non mangerai! – per porre una distanza incolmabile tra Sé e la Sua creatura. È vero il contrario! Proprio attraverso l’imposizione di un limite – si trattava di un unico albero dopo tutto… – Dio fin dall’inizio intendeva elevare Adamo al proprio livello rischiando su di lui, facendosi mendicante del suo “sì”.
In Cristo, tuttavia, noi scopriamo qualcosa ancora più grande. Guardando a Lui noi di colpo scopriamo che Dio non solo vuole questo “sì”, ma lo desidera con intensità infinita.
Giovanni ce lo fa capire mettendoci davanti ad un’altra scena: uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua (Gv 19,34).
Per Giovanni questo momento è il vertice di tutta la rivelazione. È qui che Dio «fa vedere le viscere del Suo cuore» (Così parlò Zarathustra, cit.). Ed è un cuore ferito, trafitto dalla passione; è un cuore che ama e ha sete d’essere riamato. Il cuore trafitto da una freccia, infatti, nella mitologia greca è il simbolo supremo della passione d’amore. E non erano proprio i greci che alla vigilia avevano detto Vogliamo vedere Gesù? (Gv 12,21)

Ora il loro desiderio viene saziato: Guarderanno a Colui che hanno trafitto (Gv 19,37). Il soldato, accanendosi sul corpo inerme di Gesù, fa risplendere la verità di ciò che Gesù è venuto a rivelarci: che il cuore di Dio è un cuore che ama e soffre nell’attesa di una risposta. Non solo qui Dio mi perdona. Non solo Egli mi offre il suo Spirito e il suo Sangue, che subito fuoriesce dal suo petto squarciato, quasi a mostrare l’ansia sua di darsi a me. Non solo questo: Egli trova l’unica strada perché io non mi senta umiliato davanti a Lui. Ecco ciò che è più grande: non è facile accettare il perdono. E non è facile nemmeno accettare di dipendere dalla gratuità di un altro: “Perché dovrei accettarlo? Io non ho deciso di esistere e in più mi trovo addosso un’umanità ferita, prima ancora che abbia fatto qualcosa di male. E allora mi viene voglia di bestemmiarlo, questo Dio. Mi offende vedermi così meschino davanti a questo Dio buono, compassionevole. Tienitelo il tuo perdono. Tieniti la tua bontà, non mi interessa”.

E invece no. All’improvviso vedo un’altra cosa: Dio non solo mi perdona. Non solo mi offre il dono del Suo Spirito, ma si mette nelle mie mani, mendica la mia risposta. Mi stima. Non mi accarezza come si fa con un cane, per cui si prova pena. No, Dio mi stima. È per questo che Egli chiede obbedienza, sacrificio, risposta. O, meglio, non la chiede, ne ha sete: Ho sete! Mi ami tu? Mi ami tu?
Allora anche l’ultimo muro dell’orgoglio può frantumarsi. Perché Dio davvero mi pone al suo livello! Ecco l’immensa scoperta: io, che sono niente, posso dare gioia a Dio. Posso farlo felice nell’accettare l’attimo, la carne e il sangue di ciò che mi è dato. Con la mia semplice obbedienza al piccolo posto che mi ha assegnato, con la semplice offerta a Lui di ogni istante, di ogni mio limitato respiro io posso fare felice l’Infinito: io sono infinito. È questo che Nietzsche non ha visto, che l’uomo d’oggi non vede, e che siamo chiamati a testimoniargli.

Contenuti correlati

Vedi tutto
  • Meditazioni

Dove Cristo è vivo

Non c'è uomo che, in fondo, non sia alla ricerca di Dio. La mattina di Pasqua ci insegna che si può trovare solo là dove Cristo è vivo.

  • Emmanuele Silanos
Leggi
  • Gallery

Via Crucis dei Cavalieri

Sabato 16 marzo, le compagnie dei Cavalieri del Lazio si sono date appuntamento in centro a Roma per la tradizionale Via Crucis. Al gesto pubblico, iniziato a San Gregorio in Celio e terminato a Santa Maria in Domnica, hanno partecipato, fra gli altri, i ragazzi dei gruppi delle medie delle nostre parrocchie romane: Magliana, Navicella […]

  • Roma
Leggi
  • Gallery

Convivenza a San Giovanni Rotondo

Da mercoledì 28 febbraio a domenica 3 marzo, la Casa di formazione della Fraternità san Carlo è stata in convivenza a San Giovanni Rotondo (FG). I seminaristi e i loro formatori hanno potuto pregare nei luoghi in cui ha vissuto san Pio da Pietralcina, avendo così l’occasione di avvicinarsi a uno dei santi più noti […]

  • Casa di formazione
Leggi