Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome (Gn 2,18-19)
Prima dell’incontro con la donna, la Scrittura ci racconta l’incontro di Adamo con gli animali. Mi ha sempre colpito questo fatto perché, in qualche modo, sembra corrispondere allo sviluppo dell’esperienza del fascino nell’esperienza umana – almeno così come l’ho vissuto nella mia vita. Quand’ero bambino nulla m’incantava e rapiva come gli animali. Che cosa è dunque questo fascino, questo incanto sovrano, irresistibile, che ogni bambino di questo mondo avverte di fronte al regno animale?
Verso l’altro
Certamente il bimbo è prima e ben più saldamente attaccato ai genitori, di quanto sia affascinato dal mondo animale. E infatti senza la rassicurante presenza dei genitori, tutto questo fascino non solo scompare, ma si trasforma in terrore. Come per Adamo l’intimo dialogo con Dio, il «respiro» (Gen 2,7) del dialogo con Dio è l’ambiente vitale dell’incontro con gli animali – è il Signore a condurglieli davanti «per vedere come li avrebbe chiamati» così come più tardi condurrà a lui la donna appena tratta dalla sua costola – così la presenza affidabile del babbo è per il bambino il necessario ambiente del suo aprirsi al mondo misterioso e arcano degli animali. Quest’ordine, sembra suggerirci la Scrittura, nasconde un significato ben più profondo di quel che appare: i genitori, e soprattutto la madre, rappresentano per il bambino soprattutto una dimensione del volto di Dio: quella dell’intimità, dell’affidabile familiarità. Ma Dio non è solo il sommamente vicino; è anche il sommamente Altro e Distante. Ecco allora il fascino del mondo animale: nella sua meravigliosa alterità, esso apre, meglio dei genitori – nel delicato momento in cui il bimbo si apre al mistero del mondo –, al secondo aspetto del volto del grande Altro, di cui tutto ciò che esiste è segno: l’infinita differenza, l’inesauribile novità del Suo essere Mistero, sempre diverso e più Grande del già noto.
La vita dell’uomo, in fondo, non è altro che l’avventura di un progressivo “fare amicizia” con Dio, fare la sua conoscenza; ma questa avventura è tale proprio in quanto ha da svolgersi nel tempo, attraverso la mediazione del mondo; in questo processo il mondo animale ha un posto unico, meraviglioso, tutto suo: lo ha avuto all’inizio, lo conserva dovunque un grammo di purezza rimane intatto nel cuore dell’uomo. Lo conserva nel cuore dei bambini.
Certo, anche sul regno animale regna l’ombra sinistra e ambigua della caduta. Nulla è più ciò che dovrebbe essere. Luce e ombra: tutto il cosmo visibile geme nell’attesa della liberazione, il leone e l’aquila, non meno dell’uomo (cfr. Rm 8,23). La comunione di cui Adamo godeva col mondo animale si è spezzata. Ma nel bambino, proprio per la sua innocenza, qualcosa del primordiale incontro di Adamo col cervo e l’elefante, qualcosa di quell’alba, si rinnova. Cosa vede dunque, il bimbo, quando per la prima volta, saldamente ancorato sulle spalle del papà (è questo forse il più vivido ricordo della mia prima infanzia) si avvicina alla gabbia dell’elefante e, puntando il suo ditino, pronuncia elettrizzato il suo nome, quasi a cercare di stabilire una sorta di amicizia?
Egli sta vivendo, in modo inedito e tutto speciale, il grande incontro: l’incontro con l’altro, il suo simile, uguale e diverso da me, vicino e lontano, familiare e straniero. L’elefante ha due occhi come me, ha una bocca come me, ha in un certo senso un “naso”… ma quanto diverso è dal mio! Ha orecchie, ma come sono enormi… E poi quelle zanne, ma soprattutto: come è grande! È così grande! Ed io, di fronte a lui, mi sento così piccolo, piccolo come ancora non mi ero mai sentito prima… e allora: come vorrei poter salire lassù, sul suo dorso…
In questo senso, l’attrattiva che il bimbo sente per il delfino come per il leone, è oscura profezia del fascino che un giorno egli avvertirà nell’incontro con la donna (Gen 2,23).
Somiglianza e differenza: questa è la ragione profonda di quel sentimento indescrivibile, misto di tremore e attrazione, di stupore e timore che tutti abbiamo sperimentato da bambini nell’incontro con gli animali. Certamente si tratta di una tremebonda attrazione che è solo pallidamente simile al sentimento che il bimbo cresciuto proverà il giorno del suo primo innamoramento. Sono qualitativamente incomparabili. L’animale non è persona. E tuttavia, istintivamente, il bambino vuole instaurare un rapporto, qualcosa come una amicizia. E se è vero che l’animale non può essere quell’aiuto simile a lui che la donna un giorno sarà, è altrettanto vero che vi sono qualità nell’animale che la donna non avrà mai: nessuna Eva può volare, l’aquila può. E questo è il motivo per cui il bimbo, una volta cresciuto, sentirà il bisogno di integrare nella sua bella quelle inaccessibili, stupende qualità del mondo animale, che lo hanno incantato nell’infanzia: il volo dell’aquila, lo sguardo silenzioso del gatto, la danza elegante dello stambecco, che balza di picco in picco con incredibile leggiadria… La donna sicuramente è per l’uomo mistero come nient’altro, al contempo distante e vicina: ma ella non può sostituire il mondo infinito delle qualità del mondo animale. Qualità forse strane ed esotiche, ma che suggeriscono orizzonti di trascendenza senza fine.
Per il bambino essere amico dell’aquila vuol dire che «un giorno anche io volerò. Tu mi porterai in cielo». Domani, queste parole il bambino le penserà metaforicamente riferite alla sua bella. Ma esse purtroppo non avranno più la potenza letterale, ingenua, aurorale che avevano nel cuore e nella fantasia sua quando ancora era bambino. E così, cresciuto, il bambino diventerà poeta e dovrà cantare il suo amore, e avrà bisogno dell’aquila, di passare attraverso l’aquila per capire la donna, per trovare in lei il sorprendente compimento della promessa racchiusa nell’antico incontro con l’aquila: la promessa di poter un giorno volare con lei. Non è un caso che gli amanti del Cantico dei Cantici non possano fare a meno di lodarsi a vicenda, attraverso la ricapitolazione metaforica del mondo animale e vegetale nell’unica persona amata. È questo il segno più eloquente del fatto che la nostalgia di quell’ingenuo desiderio di integrazione e amicizia col mondo della natura che il bambino avverte non muore in realtà con l’infanzia.
Lo stupore religioso
Certo è che nell’infanzia quest’incontro ha un’importanza unica nel delicato processo dell’incontro con l’Essere. Perché?
Secondo me perché il leone e l’elefante sono per il bimbo infinitamente più diversi da lui di quanto non lo sia la mamma o l’amico d’asilo. Si tratta sempre, è vero, di incontro con l’altro. Ma qui la bilancia pende tutta dalla parte dell’alterità e molto meno da quella della parentela: sta qui, forse, il segreto dell’attrattiva tutta speciale, irripetibile e preziosissima del bambino per il regno animale. Il mistero dell’altro, in quanto simile e diverso, ha qui un carattere di ovvia inferiorità quanto alla somiglianza, ma di una certa qual superiorità quanto alla differenza.
In questo senso, si può persino arrivare a dire che il fanciullo è educato allo stupore religioso più profondamente attraverso l’animale che non attraverso l’amico di asilo. Certo, vi è una misteriosità del cuore del simile che è ancora più impenetrabile del mistero dell’animale. Solo la persona umana può tacere…
Ma il bimbo sa ancora ben poco di questi più invisibili misteri. E così è proprio l’animale a destare meglio d’ogni altra cosa in lui il desiderio del Trascendente: l’uccello vola, il bambino non può volare. Il verme striscia, entra nella terra, il bambino non può. Il cervo corre, elegante e rapido, esibendo le sue meravigliose corna, singolare corona che il bimbo non ha, né avrà mai. Eppure il bambino non dà per scontata la rinuncia a tutto questo, a tutti i meravigliosi modi di essere nel mondo che l’universo animale dischiude. Non getta la spugna, non sente ancora tutto ciò come semplicemente estraneo. Il processo della differenziazione, nel bambino, non è solo più immaturo. È anche, proprio perché più immaturo, più desideroso di comunicazione e integrazione: esiste l’aquila, che meraviglia! «Esiste l’aquila ed io voglio che sia mia, voglio essere Uno con l’aquila, voglio esser come lei… pur intuendo che sono solo un bambino, e non sarò mai un’aquila…». Ma ecco: «Se le parlo, se diventiamo amici, se riesco a domarla, forse un giorno volerò sul suo dorso… Sì, un giorno io volerò con te. Tu, un giorno, mi porterai in cielo con te» (cfr. Dt 32,11).