La mia missione in Russia è iniziata a Novosibirsk il 12 settembre 1993. Già nell’aprile del ’91, però, avevo accompagnato don Massimo in un viaggio in Siberia. Poco dopo quella visita, i superiori della Fraternità, su richiesta del vescovo locale, Joseph Werth, decisero di aprire una casa. Furono mandati Gianni Malberti, sacerdote, e i diaconi Francesco Bertolina e Ubaldo Orlandelli.
Nell’estate del 1992 don Massimo mi parlò della possibilità che anch’io andassi in missione a Novosibirsk, dopo aver svolto per quattro anni il compito di suo segretario particolare e segretario generale della Fraternità. Io accolsi questa prospettiva molto positivamente. Da un lato si apriva una nuova pagina per la mia vita; dall’altro lato era chiara in me la continuità della mia vocazione nella Fraternità.
Non ero “mandato” e basta, come se questo chiudesse un rapporto, ma anzi il legame della mia vocazione con la Fraternità si approfondiva. Anni dopo avrei ritrovato questo sentimento, che allora mi percosse, espresso in un modo geniale da don Massimo in una lettera di auguri per Pasqua, in cui scriveva che i missionari partono per rimanere sempre assieme.
Essere portati
Nel 1993 dunque don Gianni rientrò in Italia e io partii. Tra i sentimenti e i pensieri che albergavano in me, c’era la percezione, forse giovanile, istintiva, di essere mandato in un posto a portare Gesù Cristo. Questo pensiero, però, mutò presto nella più umile e profonda scoperta che ero io a essere portato. Non io, con le mie forze, le mie capacità, portavo Cristo, ma Cristo portava me, attraverso la circostanza della missione.
A questa scoperta sono arrivato attraverso due elementi. Il primo fu il fattore linguistico e culturale: il dovere imparare umilmente, ogni giorno, a poco a poco, una lingua completamente nuova diventava ogni giorno l’occasione per concentrarmi su Cristo. Scegliere che cosa dire, magari anche solo una frase, nei primi incontri con la comunità cristiana; iniziare a pregare nella lingua russa, o anche l’andare a lezione: tutto diventava, in maniera miracolosa e commovente, l’occasione di un pensiero a Cristo, di adesione a lui.
In secondo luogo, c’era l’incontro con un popolo. Ero mandato a una realtà che miracolosamente già esisteva, che non dovevo creare io. La Chiesa cattolica esisteva già, anche in Siberia. C’erano già, come scoprii nei mesi e negli anni successivi, piccole comunità in tanti paesini, in tanti villaggi, e la scoperta di quelle comunità, soprattutto grazie all’apostolato che svolgevano don Francesco e don Ubaldo, fu per me l’occasione di incontrare un popolo, qualcosa che mi aveva preceduto e mi avrebbe accompagnato. Anche questo mi portò a riscoprire Cristo presente nella compagnia cristiana.
«Ossatura monastica»
Nel febbraio del 1994, don Massimo venne a trovarci per la prima volta a Novosibirsk. Gli raccontammo le nostre esperienze e lui, nel commentarle, utilizzò per la prima volta l’espressione «ossatura monastica». Con questa immagine voleva sottolineare i due poli che vedeva animare la nostra vita: essere assieme in uno stesso luogo ed essere assieme in un luogo per qualcosa d’altro, non per se stessi.
Pur vivendo assieme, passavamo molto tempo lontani uno dall’altro. Al mattino, dopo la preghiera e il silenzio vissuto assieme, ci si lasciava e ci si rivedeva la sera alle otto. Avevamo però già iniziato a fare una giornata comune, il lunedì. Don Massimo ci indicò allora l’idea di un prete della Fraternità che costituito, irrobustito – ecco l’ossatura – da una concezione monastica di sé, attraverso il rapporto con Cristo, attraverso il rapporto con la casa e con gli altri membri della Fraternità, ha già tutto. E porta fuori, agli altri, questo “tutto”. Il tempo passato “fuori” non è allora dispersione, non è il tempo in cui ognuno, come don Massimo avrebbe detto più avanti, emette il proprio canto come un cigno solitario e ormai morente. Da qui nacque l’idea di ossatura monastica, che ci colpì moltissimo, ci accompagnò nella missione, e ci permea tuttora.
I due Joseph
Tra i fatti più importanti di quell’inizio annovero gli incontri che tenevamo col vescovo Joseph Werth. Una persona semplice, figlio di una famiglia dei cosiddetti tedeschi del Volga (stabilitisi in Russia su invito della zarina Caterina II, a colonizzare le regioni lungo il Volga, e poi deportati nel 1937-38 in Kazakhstan e in Siberia), e di una disponibilità tale da incontrarci settimanalmente: ogni martedì, alle 18, noi preti della Fraternità san Carlo, insieme alle Memores Domini di Novosibirsk, eravamo invitati nella casa vescovile (allora la curia era semplicemente un appartamento). Celebravamo insieme la santa messa e gli raccontavamo di ciò che ci era accaduto durante la settimana. Nella mia memoria sono momenti intensi: qualcosa di non programmato, eppure così semplice e bello che ci permetteva di comprendere meglio ciò che ci succedeva e ci donava il conforto vivo della presenza di Cristo nel volto del vescovo. In lui percepivamo l’unità tra la nostra missione e la missione di tutta la Chiesa.
Molto significativi furono anche gli incontri con alcuni studenti nella facoltà di Lingue a Novosibirsk, dove iniziai da subito ad insegnare lingua e cultura italiana. Ho ripercorso insieme a quei ragazzi il cammino della domanda, di una riscoperta di sé, della propria fede, della propria dipendenza dal mistero di Dio. Ricordo poi in particolare il rapporto con due giovani, che avevano già finito di studiare e che da poco appartenevano alla piccola comunità cristiana del movimento di Comunione e liberazione. Uno di loro, Joseph, tenne un intervento durante il primo incontro pastorale che raggruppò rappresentanti sacerdoti, religiosi, laici, delle comunità cattoliche di tutta la Siberia, un territorio enorme, dagli Urali fino a Vladivostok. Joseph raccontò di come era avvenuto il suo incontro con il cristianesimo. Il suo racconto colpì profondamente me e tutti gli altri partecipanti.
La radice nell’inizio
Guardando oggi a quell’inizio, riscopro di nuovo la bellezza della grazia di un inizio. Siamo chiamati a riscoprire e a rivivere questa grazia in ogni circostanza. Ho ricevuto un grande dono, poiché ho potuto vivere, letteralmente, un inizio: ho visto il sorgere di una comunità cristiana, ho visto dei ragazzi diventare grandi, mettere su famiglia, cominciare a porsi la domanda seria sulla vocazione della propria vita. Ho potuto iniziare a passare un certo tempo assieme ai preti della mia casa, a fare insieme dei giorni di vacanza, a svolgere insieme gli esercizi spirituali.
Grazie alla disponibilità a partire data la prima volta e grazie al fatto di essere stato mandato, riscopro, oggi, la mia vocazione. In quell’inizio, la radice è il rapporto che è dato dalla vocazione. Riguardarlo oggi mi svela la mia vocazione in un modo nuovo, e mi rende nuovamente grato del dono che ho ricevuto.