Don Umberto Tagliaferri, segretario di don Massimo Camisasca a Reggio Emilia, racconta la storia della sua vocazione.

Andare a messa da piccolo era un obbligo. Così volevano mamma e papà. In realtà non mi è mai pesato andarci. Ci si incontrava con gli amici, era il programma di tutte le domeniche mattina: si giocava e gli scherzi tra chierichetti erano la nostra principale occupazione. Ricordo ancora le messe più “difficili”, quelle della Settimana Santa, lunghissime, e il terrore per l’abbiocco durante l’omelia. Ciò che diceva il prete e chi fosse Dio era l’ultimo dei miei problemi. Mi incuriosiva, però, che alcuni ci credessero davvero, prima fra tutti mia nonna. Poi, cresciuto un pochino, addio Chiesa, addio Gesù.

Alla ricerca di pienezza
Un figlio sicuramente non tranquillo per i miei genitori, terzo di quattro, primo maschio dopo due femmine. Liceo scientifico e poi Scienze Politiche alla Statale di Milano. Un’idea sempre chiara fin dall’inizio: essere un “grande”, fare cose “grandi”.
Sul finire degli studi, con alcuni amici avviammo una società di informatica e in poco tempo ci trovammo a fare gli imprenditori. Si lavorava molto e con soddisfazione ma non mi bastava. Avevo molti soldi e una bella ragazza, ma non bastavano. Cercavo qualcosa di più grande.
Vedere il mondo: questo sì, era un sogno “grande”! Così iniziai a viaggiare: Sidney, Mosca, San Paolo, Johannesburg, San Pietroburgo, Pechino… Ho visitato moltissimi luoghi. Ma anche questo non mi bastava, anzi, alla fine mi annoiava. A quel punto arrivò un lavoro perfetto, magnifico. Dovevo occuparmi della promozione turistica del lago di Como: girare il mondo, mostrare a tutti quanto fosse bello quello che, d’altra parte, reputavo uno dei posti più incantevoli del pianeta. Ma ancora, niente da fare, non trovavo pace. In me c’era un desiderio di pienezza e di felicità che non riuscivo a colmare.
La nonna continuava a trascinarmi a messa, di tanto in tanto. Non riuscivo a dire di no alle sue richieste di accompagnarla. Lei ci credeva davvero, eccome se ci credeva.

Un nuovo modo di vivere
Durante un viaggio di lavoro in Australia, conobbi un ragazzo consacrato dei Memores Domini, una associazione laicale nata dall’esperienza di Comunione e Liberazione. Facemmo poi altri viaggi e tra noi nacque una bella amicizia. Lui credente, io no. Lui, una vita che a me sembrava monotona, troppo semplice. Io, una vita invidiabile, sempre di corsa. Avevo tutto ciò che un ragazzo di ventotto anni potesse desiderare: successo, soldi, lavoro, ragazze. Ero in realtà triste e insoddisfatto.
Iniziammo a trascorrere insieme molto tempo. Lui, generoso e schietto, mi ripeteva in continuazione che «nella vita bisogna godere di tutto senza avere bisogno di niente». Mi rendevo conto che era davvero felice e la sua serenità evidenziava ancora di più la mia tristezza. Non ne capivo la ragione. Lui credeva in Dio: ne parlava come di una persona concreta, vicina, con la familiarità di chi indica qualcuno presente. Io lo negavo ma iniziai ugualmente ad andare a messa con lui. Cominciavo ad avvertire il fascino per un modo di vivere, di guardare le cose che mi prendeva sempre di più, nonostante tutti i miei sforzi per negarlo e tenerlo lontano. Il modo di vivere del mio amico era più vero del mio. Iniziai a conoscere altre persone del movimento di Cl, ad andare a messa quotidianamente, a leggere i libri di don Giussani. Un mondo in bianco e nero riprendeva pian piano colori e significato. Iniziai a confessarmi. Non ero un santo e lo sapevo bene, ma quale gioia nel sentire quelle parole: «Io ti assolvo, vai in pace!». Il perdono era possibile. Mi era data l’occasione di cambiare.

La scoperta di una casa
Nel caos della mia vita iniziarono a comparire dei sì, giorno dopo giorno, uno dopo l’altro. La fedeltà a quei sì mi condusse a Roma, alla Fraternità san Carlo. Avevo scoperto una compagnia di amici chiamati da Cristo a donare tutta la loro vita. Avrei fatto lo stesso e avrei potuto raccontare, a tutto il mondo ciò che mi aveva affascinato. Era la mia casa. Tutto diventò più profondo, più bello, più vero. È stato come rinascere un’altra volta. Il passato, anche gli errori, hanno preso una nuova luce. Oggi, auguro a tutti questa gioia che solo la grazia della fede può donare. Basta desiderarla, al resto pensa Dio.

 

Nella foto, piazza san Prospero, a Reggio Emilia (Foto Giorgio Galeotti). 

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