In questi ultimi tre anni, la mia missione si svolge principalmente attraverso l’insegnamento. Sono docente di matematica in un liceo bilingue di Praga. Ho 52 studenti: per quello che so, due sono cristiani praticanti, gli altri atei o comunque totalmente ignoranti sulla fede, tanto da confondere islam e cristianesimo. La società ceca è abbastanza aggressiva nei confronti della Chiesa. Per fortuna e ignoranza, i ragazzi sono meno prevenuti degli adulti. Sono però incapaci di sentirsi parte di un gruppo, di una comunità. L’idea di appartenenza in loro è automaticamente associata alla perdita di libertà e al lavaggio del cervello. È uno dei regali che la dittatura comunista ha fatto a questo Paese. I cechi sono un popolo pragmatico. Alcuni considerano addirittura il pensiero inutile o dannoso. Di conseguenza, anche la matematica, vista come scienza astratta, è oggetto di rifiuto da parte di molti genitori e alunni, tanto che il dibattito sull’insegnamento di questa materia è uno dei temi principali di giornali e riviste. Una posizione culturale che, se ha evidentemente a che fare con il rifiuto dell’ideologia, fa anche il gioco di chi ha in mano il potere.
La scuola italo-ceca in cui insegno è il risultato degli accordi stipulati in Europa, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, tra alcuni Stati occidentali e Paesi dell’Est, per favorire l’integrazione e, forse, garantirsi manodopera a basso costo. Prima di diventare prete, mi ero laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni a Milano. Così ho presentato il mio curriculum e sono stato assunto per la cattedra di matematica e fisica al liceo Ústavní. Nonostante io faccia lezione vestito in borghese, la notizia di un prete cattolico che insegna matematica si è sparsa velocemente. E la curiosità che ha suscitato mi costringe a interrogarmi ogni mattina: perché vale la pena? Cosa porto a questi ragazzi? Non sono domande retoriche: qui non c’è una comunità che mi sostenga. E lavoro con ragazzi che non sono abituati a discutere. Mancano le basi su cui fino ad oggi mi sono appoggiato: la compagnia e il discorso. Cosa dunque è essenziale?
In questi anni ho capito che la conversione è chiesta innanzitutto a me. Che cosa accende la mia vita? Cosa mi fa essere paziente, attento, capace di perdonare, severo, libero, anche nell’ostilità dell’ambiente? Soltanto lo stupore di una Presenza che mi crea ora. Solo nella coscienza di questo legame, inizia un’esperienza di pienezza. La Fraternità e la casa, attraverso la liturgia e il silenzio, sono un aiuto alla memoria. E la comunità di Cl, con la compagnia degli amici che lavorano in campo educativo, mi stupisce e rinforza. Ho capito, soprattutto, che la missione inizia introducendo nell’ambiente una novità: la letizia con cui compio il mio lavoro, l’attenzione agli studenti che, nel tempo, può diventare amicizia. Piccoli passi: due studentesse che sono venute a casa nostra per preparare l’esame di riparazione, i ragazzi con cui sono andato allo stadio, quello che ho visitato durante la sua degenza in ospedale. «Voi professori italiani», mi dicono, «siete diversi perché volete sempre discutere». A loro pare una perdita di tempo.
Come comunicare la verità a chi non sembra interessato? Non si può parlare di Dio perché «Dio non si vede». Bisogna parlare di ciò che è «più concreto». Così, un caffè con una studentessa diventa un interrogatorio sull’amicizia, sul mondo, sui rapporti affettivi, sulla matematica: su tutto, meno che su Dio e la vocazione. Può sembrare un fallimento, ma non lo considero tale. Io ci sono e c’è, anche più “concreto”, Colui che rende possibile l’amicizia tra noi. Una sera, durante una cena, il collega di chimica si dice convinto che la mia vocazione sia dettata da fattori culturali: «Io sono orgoglioso di essere ateo», ribadisce. Io rispondo con semplicità: «Il cristianesimo non mi interessava. Poi ho incontrato delle persone il cui modo di vivere mi attirava. Per questo ho cominciato a frequentarli». È la dinamica della diffusione del cristianesimo, quella che racconto: una diversità umana che contagia. «Sei uno che si lascia influenzare», ribatte il collega. Sto riscoprendo la pazienza e la gratuità. Devo aspettare, come dice Giussani, che si perfori quella mentalità comune che come un involucro avvolge la coscienza della gente. E mantenere vivo il desiderio che i miei studenti possano incontrare qualcosa che li renda certi. Essere liberi dall’esito non significa accontentarsi, ma continuare a volere il loro bene, non lasciarsi mai stancare dall’assenza di risultati.
(foto Mabel Marino)
A piccoli passi
Don Marco Basile ci racconta la sua missione tra i banchi dei licei di Praga