Un sacerdote è sempre un educatore: così come l’insegnante, egli è chiamato a comunicare. Io ho vissuto le mie prime esperienze come insegnante in Uganda, a Kitgum, prima come laico, poi come prete. Non avevo mai “studiato” cosa significasse educare. Avevo però vissuto l’incontro con il movimento di CL come un’educazione della mia umanità, in cui ho incontrato il significato della vita. E questo per me è tutto: trovare il senso. Ho sempre nutrito il desiderio di comunicare la gioia di aver scoperto una strada per la vita. I ragazzi imparano presto e assorbono il senso della vita dalla letizia e dalla certezza del maestro.
«Ma i fagioli…»
Per un anno ho insegnato in una scuola elementare italiana di Kampala, fondata da alcuni amici del movimento. Inizialmente avevo paura: mi chiedevano di insegnare tutte le materie! È stata un’esperienza molto intensa, perché sono nati dei rapporti con bambini e insegnanti che perdurano tutt’oggi e perché ho capito meglio che cosa significa educare. Ciò che più conta per un insegnante è stabilire un rapporto di apertura e di fiducia con i ragazzi. Ho visto passare da me a loro delle certezze importanti per la vita attraverso le materie che insegnavo. Pochi giorni fa, una donna oggi sposata che era mia alunna in quell’anno mi ha detto: «Ma i fagioli… Ti ricordi i fagioli?». Avevamo fatto insieme il classico esperimento con un piatto di semi di fagiolo. «Pensate che questi semi siano morti? Facciamo una prova?». Abbiamo messo i fagioli nell’acqua, il giorno dopo li abbiamo piantati. Dopo alcuni giorni di assenza sono tornato e i bambini sono venuti a tirarmi giù dalla macchina: «Vieni a vedere che cosa è successo!». Un fagiolo era germinato e aveva spinto su una zolletta di terra… Un avvenimento stupefacente, che ricordano ancora. Il loro stupore mi colpiva e mi ha insegnato a commuovermi per le piccole cose. Ecco in fondo cos’è educare: guardare insieme la realtà e vedere che cosa accade. Capire che c’è dentro qualcosa di più grande, che prima non scorgevamo.
Una Carovana da Modena a Nairobi
Vivo nella periferia di Nairobi da 16 anni. La prima richiesta che i parrocchiani ci hanno fatto, appena arrivati, è stata di aprire una scuola materna. In quel periodo la famiglia Mazzola aveva da poco perso la figlia Emanuela. In memoria della ragazza, che avrebbe voluto un giorno partire per l’Africa, i genitori fecero una grossa offerta alla Fraternità. Il desiderio delle famiglie locali e quella donazione inaspettata hanno così permesso di realizzare la struttura dell’asilo.
Abbiamo iniziato a lavorare con alcuni insegnanti del luogo. Ma non potevo farcela da solo, avevo bisogno di aiuto. Alcuni miei amici, sostenuti dall’esperienza del movimento, stavano vivendo un’esperienza molto positiva in Italia. Una di loro, Simona, insegnante della scuola «La Carovana» di Modena, è venuta a lavorare a Nairobi con le nostre maestre, per diversi mesi. Abbiamo poi fatto venire in Italia due insegnanti alla volta, così che potessero imparare dall’esperienza di Modena.
Grazie anche al dono di questa condivisione, la nostra piccola opera ha cominciato a portare frutti oltre ogni previsione: una sempre maggiore affluenza di bambini, l’apertura della scuola elementare, della scuola secondaria… Ma non sono solo risultati “numerici”. I genitori sono sorpresi dall’apertura e dall’entusiasmo dei bambini. Essi, infatti, sono cresciuti in un ambiente educativo dove l’unico scopo era primeggiare, per avere più opportunità da grandi. Il metodo che noi adottiamo, invece, si basa sull’esperienza di entrare in contatto con la realtà con tutta la propria persona, in compagnia di un adulto. L’educazione dei bambini, soprattutto i più piccoli, è un rapporto che si fonda sull’accoglienza. Al mattino, la lezione comincia con l’accogliere il bambino, coinvolgendosi con la sua vita, anche prima di entrare in classe. La mamma accompagna il bambino, scambia alcune parole con la maestra, e il bambino è rassicurato da questa vicinanza. I genitori sono stupiti nel vedere i propri figli crescere in una responsabilità, in una stima, una sicurezza per la quale non hanno paura degli adulti, perché hanno vissuto un rapporto di accoglienza totale con la maestra.
Dopo l’asilo
«Padre, adesso dobbiamo fare la scuola elementare…», è stato il frutto naturale di quello stupore. Un gruppo di genitori, affascinati da questo metodo educativo, voleva che esso accompagnasse i loro figli anche nella scuola primaria. È nata così, quasi dieci anni fa, la «St. Joseph Urafiki Foundation» che ha dato inizio alla scuola primaria. Siamo agli inizi, con questa esperienza, ci sono quattro classi. Anche in questa partenza siamo aiutati dall’amicizia di insegnanti di una scuola italiana di Magenta, la «Santa Gianna Beretta Molla». Ora con l’arrivo delle Missionarie di san Carlo possiamo cominciare a garantire una continuità di presenza, per accompagnare i bambini nel cammino della scuola primaria che qui in Kenya accoglie studenti di età corrispondente alle nostre scuole elementari e medie.
In sintesi, nella mia esperienza ho scoperto che un buon educatore è sempre preparato ad accompagnare i più piccoli nelle diverse fasi della loro vita, spesso delicate e difficili, a condurli davanti a una grande sorpresa, per scoprire nei loro occhi la gratitudine.
Nella foto, Alfonso Poppi, in Kenya dal 1997, con una piccola parrocchiana di St. Joseph.