La festa inizia alle 18. Ma lui, don Ghio, alle 15 è già in postazione nel cortile, gli occhiali da secchione, la sigaretta accesa. E pazienza se il venticello che anticipa l’estate romana è al calor bianco. Sergio non suda, magro e lungo com’è. Un milanese pragmatico, anche se dagli anni ‘90 vive a Roma: il suo benvenuto, lo affida a una gigantesca caffettiera, mezzo metro o giù di lì.
Siamo sul Colle Oppio, nel cuore di Roma: dietro la sede del Centro giovanile, in via delle Sette Sale, ci sono il Colosseo, i resti delle terme di Traiano, Santa Maria Maggiore. Le celeb che abitano il quartiere Monti, da Napolitano a Raul Bova, lasciano il posto, mano a mano che ci si avvicina al parco, agli immigrati che bivaccano all’ombra delle palme. Don Ghio è responsabile dal 2000 del Centro che è contiguo ai locali della Caritas. All’inizio non è facile far convivere l’educazione dei ragazzi e la mensa dei poveri, soprattutto agli occhi delle famiglie: «Quando siamo arrivati» racconta «avevamo 400 curdi accampati qui davanti».
All’epoca, la struttura è fatiscente. «Era un posto derelitto» riassume in modo espressivo Stefano, uno tra i primi adulti coinvolti nell’opera, come altri trascinato dalla figlia che già segue don Sergio. Le foto degli inizi mostrano pareti ammuffite, intonaci scrostati. Maria ricorda che «non c’era neanche il riscaldamento. Seguivo i ragazzi nello studio, come caritativa: un freddo cane, peggio della Siberia». Oggi ci ospita un cortile accogliente, lampade colorate ad animare la notte, pareti rivestite con il legno dei bancali. Sul palco, una scritta: “La bontà infinita ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei”. Anche il menù è pura poesia, tra rigatoni e orecchiette: sorprende che proprio il “timballo di verdure, per vegani e non solo!” sia sold out.
Nel 2003, don Sergio diventa parroco di Santa Maria in Domnica, detta La Navicella, una bella chiesa del IX secolo situata a poche centinaia di metri dal Centro. Qui si trasferisce la casa della Fraternità dove vivono il viceparroco don Luca Speziale, don Matteo Stoduto, rettore dell’istituto Sant’Orsola, don Agapitus Angii, cappellano d’ospedale, Marco Vignolo, da poco ordinato diacono, Jean-Marie Locatelli, padre di don Lorenzo, il missionario della San Carlo ora a Santiago del Cile, che al Centro è cresciuto e ha incontrato la vocazione sacerdotale. E non è il solo. I missionari si dividono tra la scuola, la parrocchia e il rapporto con le persone del Movimento. In particolare, don Ghio segue i ragazzi delle superiori, che al Centro pranzano il venerdì, prima del raggio, il momento di incontro settimanale. Don Luca Speziale segue le medie, con la Barca di Pietro e il gruppo che prepara ai sacramenti i più piccoli, la Compagnia delle Stelle di San Lorenzo. E poi ci sono le caritative, sostenute anche dai seminaristi della San Carlo, rivolte agli anziani negli ospizi, ai poveri, ai ragazzi come aiuto allo studio. «È un lavoro che serve soprattutto a noi» garantisce una mamma. «A concepire la vita come servizio».
Alessandra sfugge per un momento all’inseguimento di Giulia, la capocuoca che ha passato i settanta e ancora fa il pellegrinaggio Macerata-Loreto in ciabatte: «Qui trovi di tutto, amici, gente della parrocchia, persone che non credono ma chiedono i sacramenti per i figli. La cena è un bel modo per incontrarsi». «Mia figlia è sempre stata curiosa» racconta Stefano. «Al ginnasio era attratta dalle assemblee, dalle manifestazioni. Ma io stavo tranquillo, sapevo che questo luogo per lei era una pietra di paragone». Maria ha i figli grandi ma continua a venire, attratta dal fatto «che c’è la vita normale, una compagnia che sostiene, un’amicizia vera. Qui i ragazzi sentono di essere qualcosa di grande e la responsabilità di questa grandezza li fa fiorire».
Di certo, è qui la festa, in questi giorni di incontri e musica, e poi nelle cene che si ripetono tutto l’anno di sabato, ogni quindici giorni: 130 coperti, un’occasione dove rischiare, nel rapporto con l’altro, ciò che abbiamo di caro. A un tavolo, scopro un frammento della mejo gioventù di questa Roma inedita, tra liceali, maturandi e universitari: Michele, Andrea, Francesco, Miriam, Luca, Giacomo, Giulia, Giovanni e gli altri. Non c’è bisogno di fare domande. «Sergio ci tiene a me, per questo sono qua». «Mi attira la serietà, quell’unità di sguardo che investe tutto». «Mi ha sempre colpito banalmente vedere i seminaristi contenti. Riconosco che la loro vita è desiderabile, che è una cosa possibile anche in altre forme, anche per me». «Adesso che sono all’università, capisco che non devo tornare qua per vivere la missione. Il Centro me lo porto dietro».
La serata è quasi finita, ci sono ancora domande aperte per don Ghio: il rapporto con la casa madre della Fraternità, una certa concezione di sé, la vocazione. «Sono colpito dalla fortuna che ho avuto in questi anni. Mi concepisco come uno che non è stato lasciato solo. E sono anche grato perché mi hanno detto: “Vai, fai, giudica, rischia”. Poi, sai, ognuno risponde di quello che gli è chiesto, dal tirar su un mozzicone al cucinare. Alla fine, rispondere anziché rincorrere quello che hai in testa, è meglio». Il tempo di girarsi e lui sta già raccogliendo le cicche di sigaretta, spegnendo le luci. Non è solo essenziale e pragmatico, don Sergio. È che ha di meglio da fare.
Nella foto, un momento della “Festa del Centro”.