Avevo da poco varcato la soglia del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, quando ho incontrato un gruppo di ragazzi, i più “grandi”, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, appollaiati sulle panchine ai lati del campo da calcio che si trova all’interno dell’istituto.
Ogni venerdì pomeriggio, insieme a tre seminaristi, David, Pietro e Marco, proponiamo a loro e ai detenuti più giovani (dai 14 ai 17 anni) un incontro cui può partecipare chi vuole. È l’occasione per discutere sui temi più diversi, a partire da una frase o da una domanda che, provocandoli, aiuti i ragazzi ad aprirsi e a mostrarsi per ciò che sono. Poi rimaniamo per l’ora d’aria, durante la quale possiamo conoscere tutti e chiacchierare anche con chi non ha partecipato all’assemblea.
«Ahmed, come stai?». «Oggi non sono in vena, sono arrabbiato, perché sono in guerra con il mondo intero». Gli chiedo per quale motivo e mi spiega. Ahmed è un ventenne musulmano, di origini marocchine, e con il pensiero mi riporta ai tragici eventi di Parigi che si sono consumati qualche giorno prima. Parliamo per un po’ e alla conversazione piuttosto animata, come normalmente accade, si uniscono altri ragazzi. Ad un certo momento Ahmed dichiara: «Sarei disposto ora ad andare a Parigi, entrare perfino in una chiesa, e compiere anche io un atto di quel tipo. Ora sono in carcere, poi uscirò, commetterò nuovi reati e mi riporteranno dentro. Tanto la mia vita non è importante». Queste sue parole mi sono rimaste dentro.
«Tanto la mia vita non è importante»: è questa la percezione che la maggior parte dei ragazzi dietro le sbarre ha di sé. Essere arrivato in carcere è il primo grande fallimento della vita. Poi quando si diventa recidivi, allora si inizia a pensare veramente che d’ora in avanti non si possa che correre su quei binari.
Alle parole di Ahmed avrei voluto rispondere: «Sono sicuro che se un giorno ti venisse in mente di compiere un atto del genere, ti ricorderesti che, proprio quando tutti ti avevano abbandonato, c’era un prete che ti voleva bene». Ho però tenuto questo pensiero per me.
Qualche tempo dopo ho incontrato nuovamente Ahmed, questa volta nella palestra del carcere durante una festicciola di carnevale. Un altro ragazzo, Bruno, vedendomi arrivare, ha mimato “simpaticamente” il segno della spada che avrebbe tagliato la mia testa, memore delle azioni compiute dagli estremisti islamici che riempiono i giornali e il web. Mi avvicino e Bruno, insieme ad Ahmed, viene a salutarmi. Davanti ad Ahmed, Bruno ripete lo stesso gesto. «Eh, no! No, Nicolò non si tocca!», è stata la sua reazione. Ahmed mi ha molto sorpreso. Lui, che poco prima era disposto a compiere un atto orribile, ha pronunciato queste parole.
«Il cristiano non tollera, ama ciò che incontra» (Giussani, L’uomo e il suo destino, p. 93). L’incontro con Ahmed mi ha indicato una strada percorribile. A me è chiesto solo di amare ogni persona che Dio mi fa incontrare. Prima di ogni divisione e contrapposizione infatti esiste la persona con il suo bisogno di essere guardata, presa sul serio, rispettata nella sua dignità altissima e amata. Questi ragazzi mi ricordano quello che don Giussani ha sempre insegnato: l’enorme fiducia nell’uomo e nella grandezza del suo bisogno e desiderio. «Al principio del dialogo c’è l’incontro», ha detto papa Francesco. Questo segreto bisogno nel cuore di ogni ragazzo è un vero punto di dialogo, anche con chi sembra più lontano e distante. Qui risiede per me una grande speranza contro ogni bruttura dei nostri giorni.