Come comunicare con persone di lingue e culture diverse? Don Josè Cortes racconta l’inizio di una sfida: costruire una comunità intorno alla presenza di Cristo.

Da quattro anni sono parroco di «Christ The King». La nostra parrocchia si trova a Silver Spring, cittadina alle porte di Washington DC. Dopo tre anni “in solitaria”, dall’agosto 2013 vivono insieme a me altri due preti, Roberto Amoruso e Ettore Ferrario. Io mi dedico a tempo pieno alla chiesa, mentre gli altri sono impegnati anche nell’insegnamento in una scuola cattolica.

La nostra comunità è cosmopolita. Metà della parrocchia viene dall’America Latina e parla spagnolo. Noi dobbiamo continuamente passare dall’inglese allo spagnolo e viceversa. Tante persone vengono poi dalle Filippine, dal Kenya, dall’Etiopia, dalla Nigeria, dal Camerun, dal Ghana, dal Vietnam, da Haiti, dall’India, dalla Germania e anche dall’Italia. Anche noi preti siamo stranieri: io sono portoghese, mentre don Ettore e don Roberto sono italiani. Siamo proprio la parrocchia delle Nazioni Unite!

In questi primi quattro anni ho dovuto soprattutto imparare. Imparare a comunicare nelle due lingue e scoprire ciò che, in queste culture differenti, può essere motivo di riso o di pianto. Quando sono arrivato ho dovuto entrare nella cultura americana, ma anche comprendere le tradizioni di tanti popoli diversi. La diversità può essere di per sé un bene, ma talvolta è un ostacolo nella ricerca dell’unità. La sfida culturale è molto importante e il nostro lavoro è aiutare le persone a crescere nell’unità.

L’emigrante ha paura di perdere la propria cultura, le proprie origini. Per questo spesso cerca nella Chiesa un luogo di difesa della sua identità, un posto dove poter condividere con i propri connazionali la nostalgia del paese lasciato. Pur comprendendo questo atteggiamento, vogliamo aiutare gli immigrati affinché si pongano in modo più aperto e propositivo nella vita della comunità. La fede non può essere esclusivamente un retaggio culturale. Essa è autentica solo se è un’esperienza viva di rapporto con Cristo.

Ci siamo posti tre priorità per questo inizio. La prima è l’educazione alla fede delle persone, in modo particolare dei bambini e dei ragazzi, che molto numerosi si stanno preparando a ricevere la prima comunione e la cresima. Anche il gruppo di giovani sta crescendo. In secondo luogo la carità, come attenzione speciale ai poveri della parrocchia, ai malati, a coloro che hanno perso la speranza, feriti dalla vita. Infine ci stiamo impegnando nella missione. Il nostro orizzonte va al di là dei muri della chiesa, guardiamo a tutti quelli che sono fuori e che aspettano di incontrare Cristo, di trovare un senso alla loro vita.

E poi la preghiera. Abbiamo deciso di riservare ogni giovedì l’intera giornata all’adorazione eucaristica. Una decisione che è apparsa subito come una sfida, perché prima del nostro arrivo il momento mensile di adorazione andava deserto. I parrocchiani però hanno accettato la sfida, e questo sta portando frutti. Il giovedì è veramente una giornata di silenzio e di preghiera in parrocchia.

La gente non si confessava. Incominciando a confessare durante tutte le messe la maggioranza delle persone è tornata a questo sacramento.

Dopo quattro anni di missione siamo ancora all’inizio. Nella mia esperienza di parroco ho imparato che la perseveranza e la pazienza sono le virtù più importanti nel costruire il Regno di Dio. Amando la gente, vivendo la fede con loro, nel tempo verranno i frutti che Dio vorrà.

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