In questi primi mesi dall’arrivo a Santiago, spesso è riaffiorata nella mia coscienza una domanda: perché Dio mi vuole qui?
A volte è scaturita da una certa impazienza della ragione, che vuole vedere subito i risultati. Altre volte, è sorta dal vuoto lasciato dalla mancanza quotidiana di certi rapporti che avevo a Roma e che, con il passare del tempo, scopro sempre più fondamentali e cementati nella mia persona. Altre volte ancora, questa domanda è emersa dal senso di positività che nasce quando mi accorgo della compagnia provvidenziale dei miei confratelli e di tanta gente di buona volontà che ho cominciato a conoscere in parrocchia.
Questo popolo, con la sua specifica cultura e la sua storia, la gente della nostra parrocchia, con la sua povertà e i suoi drammi legati alle divisioni familiari, all’alcol e alla droga, ma che è anche dotata di tantissimi punti di forza, tra cui la carità reciproca… Tutto questo richiede tempo per essere compreso. Questo tempo, in cui potrebbe predominare l’impazienza o un senso di estraneità e solitudine, si sta rivelando invece, grazie alla fede, un tempo propizio per la mia persona. Cristo ha toccato la mia vita e fa di tutto perché mi accorga che è lui a darmi questa nuova realtà. Così tutto riacquista senso: cresce in me la voglia di studiare a fondo lo spagnolo per capire la gente, insieme al desiderio di donare le mie energie, giorno per giorno.
Le persone della parrocchia si aspettano molto da noi sacerdoti arrivati da poco. Il fatto che siamo in due, io e don Alessandro Camilli, e che siamo stranieri è una ventata di novità, che ha portato molta gente a riavvicinarsi alla Chiesa. Alcuni non mettevano piede in chiesa dalla prima comunione. Perciò, per prima cosa, abbiamo aperto i confessionali: erano imbiancati da un denso strato di polvere e coperti di ragnatele… Ora, ad ogni messa, c’è una fila di persone desiderose di ricevere il perdono sacramentale.
Uno degli incontri più rivelatori che ho avuto è stato quello con un uomo bloccato sulla sedia a rotelle e afflitto da una malattia terminale. Aveva abbandonato la fede da anni. Ultimamente è venuto in chiesa con un duplice desiderio: riconciliarsi con Dio e lasciare ai figli un segno della sua gratitudine verso il Padre Eterno. Al termine della confessione gli ho chiesto: «Lei crede, vero, che Cristo è più forte della morte?». Risposta: «Sì, lo credo». E ci siamo lasciati con il presentimento di non rivederci più, ma con la certezza rinnovata che Cristo può tutto.
Oltre ai sacramenti, e in particolare alla confessione, la seconda dimensione significativa che ho vissuto ha riguardato l’impatto con il mondo della scuola. Qui in Cile alcune scuole cattoliche provvedono anche alla formazione catechistica dei ragazzi e nel periodo d’Avvento si celebrano le prime comunioni e le cresime. Sono stato chiamato in un paio di scuole limitrofe alla parrocchia per celebrare la messa, confessare, e battezzare. Nel dialogo con uno di questi ragazzi che si preparava a ricevere la cresima, mi sono reso conto dell’immensa grazia che rappresenta per loro avere degli adulti che gli parlino di Cristo. In particolare, una ragazza, quasi anoressica e sempre in disparte rispetto alle amiche, ha colto l’occasione della presenza del prete per confidare il proprio dolore causato dalla scomparsa della nonna. Averle parlato di Cristo e della resurrezione è stato un avvenimento così liberante per lei, che appena aveva cinque minuti liberi, tra un’ora di scuola e l’altra, mi veniva a cercare. Per lei quel dialogo è stato un vero e proprio incontro, capace di darle una luce nuova. Tutti noi, ogni giorno, abbiamo bisogno di una luce così. Da quel giorno è cresciuto in me il desiderio di entrare nel mondo della scuola, per intercettare la grande sete di significato dei giovani.
Nella foto, Stefano Don con alcuni parrocchiani a San Bernardo (Cile).