Dalla fede nata in famiglia all’incontro con CL, dall’invito di Giussani a «svuotare lo Stivale» ai trent’anni di missione in Africa. Il giubileo sacerdotale di don Valerio

«In tutti questi anni, da quando il movimento di Comunione e Liberazione è nato a Nairobi, don Valerio è sempre stato presente!». Romana, oggi madre di famiglia, si lascia colpire da questo pensiero quando cerco di rubarle qualche ricordo. È fiera di avere questo amico venuto da lontano, in compagnia di alcuni Memores Domini, per farle incontrare la persona di Gesù Cristo. In verità, non ci sarebbe bisogno di domandare. Sono tante, infatti, le storie e i racconti che parlano di don Valerio, che affiorano, quasi naturalmente, durante cene e serate in compagnia: c’è chi è grato per aver scoperto la bellezza del canto, chi ne ricorda la serietà nel dare gli avvisi, chi è semplicemente colpito dalla sua discreta e stabile compagnia. C’è persino chi porta il suo nome!
Ascoltando questi ricordi intrecciati a tanta allegria e gratitudine, viene voglia di scoprirne il segreto, di conoscere la storia dei suoi cinquant’anni di sacerdozio. Ho chiesto a don Valerio di narrarcela. Ed ecco ciò che, dopo un’Ave Maria, un Gloria a don Giussani e un buon caffè, ci ha raccontato.
Don Valerio, cinquanta anni di sacerdozio: comincerei chiedendoti come è maturata la tua vocazione.
La mia vocazione è nata nella mia famiglia, in una vita cristiana aperta al Signore e alla sua presenza e, in seguito, grazie all’educazione ricevuta in seminario, attraverso i miei superiori. Iniziai il seminario quando ero in prima media: gli anni del liceo a Firenze furono decisivi, avevo degli ottimi professori ed educatori, che mi fecero innamorare della vocazione al sacerdozio. Il mio vescovo mi chiese poi di trasferirmi a Roma, dove avrei studiato teologia e in seguito liturgia. Il periodo romano fu il tempo della maturazione della mia vocazione.
Erano gli anni del Concilio, e si respirava un’aria stimolante, che mi incuriosiva: tutta la Chiesa si trovava nella capitale in quel periodo. Come seminaristi ci era permesso a volte di varcare le porte di San Pietro, per esempio prestando servizio liturgico ad alcune celebrazioni vaticane. Avevamo anche molte occasioni di incontrare vescovi provenienti da tutto il mondo. Vidi tutta la Chiesa confluire in un unico luogo, se ne percepiva l’unità, era molto affascinante.

 

Quando hai incontrato don Giussani e l’esperienza di Comunione e Liberazione?
L’incontro con il carisma di don Giussani avvenne più avanti, quando, rientrato in diocesi a San Sepolcro, un sacerdote che conoscevo, don Battista, aveva dato inizio a un gruppo di Gioventù Studentesca di circa quaranta ragazzi. Il vescovo mi chiese di affiancarlo. Ero attratto dalla bellezza del loro stare insieme, da come vivevano. Conoscere il movimento di Cl fu per me innanzitutto imparare da quei ragazzi. Qualche mese più tardi, don Battista fu trasferito e io presi il suo posto alla guida di Gs.
Incontrai per la prima volta don Giussani a La Verna, durante un ritiro per alcuni sacerdoti di Cl guidato da lui. Rimasi affascinato dalla bellezza di quei giorni. Furono un aiuto a riscoprire il mio essere prete. Un tema del ritiro era “la verginità” e don Giussani ne parlava non come una rinuncia, come mi era sempre stato insegnato fino ad allora, ma come un possesso più alto delle cose, come il segno più grande della resurrezione di Cristo sulla terra. Fu l’incontro decisivo della mia vita. Per la prima volta sentivo parlare della verginità in una luce più profonda, la avvertivo come un’esperienza umana piena, e questo mi riempiva di entusiasmo.
Don Giussani venne in seguito più volte a trovarci a San Sepolcro, dove l’esperienza di Gs cresceva e dove, nel frattempo, mi era stato proposto dal vescovo di vivere con altri tre sacerdoti. Fu la mia prima esperienza di vita in comune. Ne sarebbero seguite molte altre.
Nel 1976, don Giussani mi propose di andare a vivere a Perugia, per seguire alcuni di quei ragazzi che si erano trasferiti nel capoluogo umbro per frequentare l’università. Andai a vivere in una casa di Memores Domini. Di nuovo la comunione era posta all’origine della mia vita quotidiana.
Come è nato in te il desiderio di partire per l’Africa?
I dieci anni passati a Perugia alimentarono in me il desiderio della missione in un modo molto semplice: guardando come i ragazzi del Clu comunicavano l’esperienza cristiana in università. Nell’agosto del ’84, durante una riunione a Corvara, don Giussani chiese di “svuotare lo Stivale” e io, spontaneamente, diedi la mia disponibilità a partire. Volevo offrirmi al movimento come avevo fatto a Perugia, affinché questa esperienza potesse essere fatta anche altrove nel mondo. Ero convinto che sarei partito per l’America Latina, dove già si trovavano alcuni miei amici. Mi sarebbe piaciuto seguirli. Ero però anche affascinato dal Kenya. Sentivo don Ricci e padre Tiboni parlarne come di un luogo meraviglioso. L’ipotesi si concretizzò perché un compagno di seminario di don Giussani, padre Marangoni dei Comboniani, chiese aiuto a Cl per la gestione di una scuola professionale fondata dalla sua congregazione. Proprio nello stesso periodo, il Cardinal Otunga, oggi servo di Dio, propose a don Giussani di avere una presenza del movimento in diocesi. Arrivai a Nairobi con un gruppo di Memores Domini nell’aprile del ’86. Vivevo insieme a loro e seguivo la loro regola. Ancora una volta potevo sperimentare la comunione al servizio della missione.
Poi c’è stato il tuo incontro con la Fraternità san Carlo…
La convivenza con i Memores Domini è stata molto profonda e di grande aiuto. Le persone si accorgevano della nostra comunione dal modo in cui lavoravamo assieme. Proprio in questa convivenza è nato in me il desiderio di vivere una vita comune più precisa. Volevo vivere con altri sacerdoti. Nel 1992 chiesi di entrare nella Fraternità san Carlo; avevo conosciuto don Massimo Camisasca in alcune riunioni dei responsabili di Cl già negli anni ’70 e ne ero rimasto colpito. Condivisi con don Giussani questo mio desiderio, ed egli mi incoraggiò. Il mio vescovo, però, non accolse subito la mia richiesta. Nel 1993 andai a vivere con un sacerdote della Fraternità san Carlo, Roberto Amoruso, che mi aveva raggiunto a Nairobi. In quegli anni eravamo molto aiutati da don Massimo e dai superiori della Fraternità san Carlo che ci facevano visita in Kenya. Nel 1997 mi fu poi accordato il permesso e da allora sono membro della Fraternità. Proprio nello stesso anno ci venne affidata la parrocchia di st. Joseph a Kahawa Sukari.
Che cosa significa per te oggi vivere con gli altri sacerdoti missionari?
La casa è la grazia più grande, perché solo dalla comunione può nascere la missione. La vita insieme agli altri è una grande ricchezza, significa crescere insieme nelle diversità ed è, come dicevo, la prima testimonianza che possiamo dare al mondo.
Dall’inizio degli anni ’90 sono sorte a Nairobi, intorno alla casa della Fraternità, diverse realtà educative, assistenziali, pastorali. Che cosa ti hanno insegnato questi anni? Che cosa hai più a cuore?
Direi che ogni opera nata qui a Nairobi, intorno alla nostra casa e alla nostra parrocchia, o nel movimento, è scaturita da una preoccupazione educativa. Don Massimo amava ripeterci che il futuro e lo sviluppo del Kenya sarebbero dipesi dall’educazione del popolo. Questo è ciò che ancora oggi mi sta più a cuore. Tutto era partito dalla scuola professionale legata a padre Marangoni: la nostra preoccupazione era già allora prevalentemente educativa, volevamo comunicare il valore del lavoro. Per questa stessa ragione è nata la scuola professionale «San Kizito». Sono poi sorte opere anche qui in parrocchia: l’asilo «Emanuela Mazzola» e la scuola primaria «Urafiki-Carovana». Le famiglie che hanno desiderato cominciare con noi queste opere erano affascinate dalla nostra vita, volevano che questo si potesse sperimentare anche nell’educazione dei propri figli. Anche il gruppo «Ujiachilie», che si occupa di disabili, e la realtà del Meeting point, dedicata ai malati di Aids, vogliono essere principalmente opere educative. Cosa ci interessa insegnare? Non vogliamo che queste persone considerino la loro malattia come una maledizione. Ci auguriamo, invece, che attraverso l’incontro con Cristo possano ritrovare un motivo per vivere. È sorprendente vedere le madri dei bambini disabili cambiare il modo in cui guardano i loro figli, solo perché si sentono accolte.
Mi auguro che quello che a noi è stato dato attraverso don Giussani possa accadere anche qui. La testimonianza di come questo incontro abbia cambiato la nostra vita ha rigenerato, nel tempo, anche la vita di questi nostri amici a Nairobi.
Tu hai visto nascere e svilupparsi il movimento in Kenya. Puoi raccontarci cosa ricordi dei primi incontri, del suo inizio?
Nei primi anni eravamo presenti in alcune scuole e in due università, io ero cappellano alla Jomo Kenyatta University.
Fin da subito l’avventura del movimento in Kenya fu contrassegnata dall’unità tra diverse vocazioni: oltre alla presenza dei Memores Domini e mia, si erano trasferite nel paese anche altre famiglie, che si fermarono per diversi anni. Ognuno ha dato il suo contributo.
Le prime persone che incontrammo percepirono il movimento come un’esperienza umana e cristiana più vera, capivano che non ci interessavano i loro successi scolastici o la realizzazione della loro carriera lavorativa, problemi molto brucianti ancora oggi in Kenya. I ragazzi del Clu erano stupiti dalla nostra vita fraterna. Essi capivano di poter rompere il formalismo che caratterizzava i loro ambienti di studio per entrare in un’esperienza di vita che non sarebbe durata solo per un periodo, ma per sempre. Ciò avveniva attraverso gesti molto semplici come la preghiera comune, i canti, le prime scuole di comunità. Li invitavamo poi a molte gite, uscite, momenti di gioco.
In quegli ambienti abbiamo incontrato negli anni tante persone da cui sono sorte la comunità di Nairobi, la comunità di Mutuati, e più di recente anche la comunità di Eldoret, dove studiano parecchi studenti universitari. Alcuni di quei ragazzi, una volta sposati, hanno desiderato trasferirsi nel nostro quartiere per frequentare la nostra parrocchia e permettere ai loro figli di frequentare le scuole.
Abbiamo poi avuto la grande grazia di avere un responsabile della comunità africano. Joakim è il segno che il movimento in Kenya non è più un’esperienza che viene “da fuori”, ma che cresce nelle persone del posto.

 

Che consiglio dai a un sacerdote appena ordinato?
Giussani diceva di essere uomini e che la vocazione completa la nostra umanità. Dobbiamo essere innanzitutto uomini, nel movimento e nella Fraternità san Carlo, dobbiamo accogliere e seguire l’insegnamento che in essi ci viene comunicato per fare esperienza del centuplo quaggiù.

 

Che cos’è per te la preghiera oggi?
Don Paolo Sottopietra durante le sue ultime visite ci ha invitato a dare molto spazio al silenzio del mattino. Trovo grande aiuto in quello che la Fraternità san Carlo ci sta chiedendo. Questa preghiera iniziale è il sostegno più grande di ogni mia giornata, è un aspetto fondamentale della vita e della missione.
Dopo gli scontri tribali del 2007, che hanno sconvolto il nostro paese, abbiamo stabilito anche un momento quotidiano di adorazione eucaristica in parrocchia, con i fedeli. Trovo che questo sia il momento più importante del nostro lavoro missionario, perché dice che la nostra missione non è altro che annunciare Lui.

Nella foto, don Valerio Valeri nei primi anni di missione in Africa.

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