«Sono anni che non mi faccio viva – mi scrive di recente una ragazza – ma ti penso spesso e mi ricordo della testimonianza che mi hai dato». Fa piacere sentirselo dire, ma di che testimonianza sta parlando? Nel corso della lettera accenna a una testimonianza di carità e di certezza. Una collega mi avvicina e mi dice: «Sai, parlavo di te con un altro collega, sottolineando come tu ti esprimi sempre con convinzione, e lui mi ha risposto: “È vero, ma non credere che sia una questione di idee, ideali, o ideologie; per lui la fede è una questione personale. Per questo l’incontro con lui ha fatto rinascere in me un interesse per la fede”».
Ma come è possibile? Insegno in una scuola non cattolica, dove non posso parlare apertamente della mia fede. Anzi, devo parlare politicamente corretto (anche se ogni volta mi si accappona la pelle), devo far finta di credere all’ultima parola che qualche Solone dell’educazione ad Harvard ha inventato per pubblicare un altro libro, devo evitare qualunque riferimento a una morale umana…
Che scopo ha la mia vita? Per quale compito Gesù ha scelto proprio me? Mi ha chiamato per essere testimone della sua tenerezza per me. E mi chiama ogni giorno per Nicole e Marc, Maggie e Riccardo, Brad e Cate, Christaly e Cam, Katie e Eli, Laura e Francesco… insomma per tutte le persone che mi affida e che mi ha dato come segno concreto della sua predilezione. Non mi chiede, per fortuna, niente di più che di lasciarmi prendere. Tutto il resto viene poi di conseguenza. Così, quando fuori è ancora buio, mi alzo dal letto e appoggio la fronte sui piedi della croce appesa al muro, la bacio e chiedo di «amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti».
«Padre, mi vuoi fare un regalo? – mi chiede una studentessa a scuola – Vuoi venire a casa di una mia amica per un rosary party?». Ora, non mi sono mai considerato un fanatico religioso, ma cosa dovevo fare? Bacio la croce e dico di sì. Così quel sabato, dopo la caritativa con un gruppo di amici, quando il sole scompare all’orizzonte e comincia a piovere, mi metto in macchina e guido due ore per buie strade di campagna. Quando finalmente arrivo a destinazione, mi trovo in una casa con una trentina di adulti che non conosco e settanta ragazzini che giocano dappertutto. Chiacchiero con questo e quello, mi vengono presentati altri, e quando arriva il momento della cena, prima di cominciare il rosario, è giunta per me l’ora di risalire in macchina e guidare altre due ore. Una ragazza mi aveva chiesto di pregare per una sua zia, così il rosario lo dico mentre torno, per la signora.
Per non distrarmi dalla guida, dico Ave Marie per un paio di chilometri, poi ci attacco un Gloria e un Padre Nostro. Lo faccio con un sorriso da orecchio a orecchio, perché la vita è bella e Dio è grande, e perché sto tornando a casa, là dove tutto comincia, là dove la tenerezza di Gesù mi genera ogni giorno. Il politically correct, la Scienza dell’Educazione, e tutto il resto perde il veleno e diventa il fango in cui la pepita della Sua presenza mi aspetta. E si riparte.
Nella foto, una veduta di Boston, Usa (foto Bart Hanlon).