Don Giovanni Fasani guarda agli inizi della propria esperienza: il fascino e la necessità di un’educazione, quella di don Giussani, perché il canto diventi una dimensione della vita, la modalità più vera per parlare a Dio.

Durante la liturgia della Vigilia di Natale nella casa di formazione, abbiamo cantato insieme alle Missionarie il canto polifonico In notte placida. È un canto molto semplice e di una bellezza dolce, come tutti i canti del periodo natalizio. Credo di averlo sentito per la prima volta una notte di Natale tanti anni fa, quando con la mia famiglia andavo alla messa di mezzanotte in S. Pietro in Gessate, a Milano.

Io non ho mai conosciuto personalmente don Giussani, ma ho potuto godere da sempre della compagnia di molti suoi amici e dei frutti che da lui continuamente nascevano. Il bel canto è uno di questi e, fra tutti, è forse il più stupefacente. Quella notte di Natale quand’ero bambino, e in tutte le altre occasioni in cui poi ho avuto modo di ascoltare i cori educati nel Movimento, era come se un antico segreto rivivesse. La maggior parte delle volte non si trattava di nuove composizioni, ma di musiche tradizionali il cui splendore veniva dissotterrato e riportato alla luce. Tutto ciò non aveva nulla di manieristico; era piuttosto come tornare a parlare dopo tanto tempo la propria lingua, risentire parole che avevano veramente senso.

Ma come era possibile che tutto questo accadesse? Ho intuito per la prima volta il genio educativo di Giussani quando ho cominciato a partecipare al coro di Gioventù Studentesca diretto da Adriana Mascagni. Una volta stavamo provando il «Caligaverunt» di Da Victoria e il canto non veniva; eravamo distratti e anche stanchi per le lunghe prove in vista del Triduo Pasquale. Ad un certo punto Adriana fermò tutti con un gesto secco e cominciò a leggerci il testo del canto lentamente. Lo leggeva come se fosse un pezzo di teatro. «I miei occhi sono offuscati dal pianto…». Accompagnava la lettura con dei gesti, cambiando l’intonazione a seconda della frase che leggeva: «…perché hanno portato via colui che era la mia consolazione». Eravamo più di cento liceali, ma il silenzio calò all’improvviso. Quel Gesù stampato sugli spartiti di Da Victoria si era come palesato di fronte a noi in tutto il suo splendore. Eravamo diventati consapevoli di colui che desideravamo lodare.

Successivamente, con il coro degli universitari, ho iniziato a vivere il canto anche come servizio e testimonianza. Una volta infatti che si è gustata la bellezza che esso può comunicare, diventa quasi irresistibile non impegnarsi perché tutti possano goderne. Cantare è un evento ricchissimo. Mi sono domandato spesso in cosa consista il suo misterioso segreto. Esso ha tutta la forza della parola, ma è arricchito dalla potenza della musica; è un evento personalissimo e allo stesso tempo è sempre voce che scaturisce per qualcun altro. In esso l’invisibile si fa sperimentabile: è forse la manifestazione più sorprendente della realtà dello spirito.

Quando sono entrato nella Fraternità tutte queste cose sono diventate una dimensione stabile della mia vita. Il canto può essere vissuto come protagonismo, come affermazione di sé. Questo lascia però spazio solo all’affanno e all’amarezza. Nella comunione con i fratelli si inizia invece a sperimentare un lieto abbandono che fa tornare a cantare come quando si era bambini. Giussani amava ripetere che si canta davvero solo quando si appartiene. Nella casa di formazione la fedeltà alla liturgia è stata per me la strada perché questa consapevolezza potesse radicarsi. Nella preghiera comune e nella celebrazione della Messa, nel tempo si diventa infatti sempre più grati e coscienti che dipendere da un Padre buono è la cosa più bella che esista. E allora il cuore non smette più di cantare.

 

Nella foto, il Coro di Comunione e Liberazione durante le ordinazioni sacerdotali della Fraternità san Carlo.

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