Ognuno di noi è orientato verso il futuro. Certamente quello personale, ma anche, più in generale, verso quello del mondo. È un’apertura non completamente consapevole, ma tutte le volte che entra in crisi la possibilità di futuro, entra pesantemente in crisi anche il nostro presente.
Mi sembra abbastanza significativo un commento di Emmanuel Mounier, pubblicato nel 1947 sulla rivista L’Espirit, in riferimento a un fatto di cronaca del tempo. Pare che, durante un programma radiofonico, un abile giornalista fu così bravo nel descrivere le conseguenze nefaste di un una catastrofe nucleare che alcune persone si suicidarono… per non morire. Mounier fa notare che, oltre ad essere il riflesso tragico di una situazione paradossale, l’accaduto dimostra anche che ognuno di noi vive molto più di futuro che di presente. Quando un essere umano è privato del suo futuro è come se fosse già privato della sua stessa vita.
Ricordo un giorno (era inverno, faceva molto freddo, Milano era desolata e desolante, il cielo era senza sole) di aver visitato una donna, che chiameremo Francesca, alle prese con un cancro alla fase terminale. Una donna con poco più di 35 anni, ridotta ormai a pesare 40 kg, a letto nella semi-oscurità perché la luce le dava fastidio. Era curata in casa dal marito che aveva lasciato il lavoro per prendersi cura di lei, potendo contare su una nonna per accudire la figlia di circa un anno e mezzo. Ci arrivai seguendo dei medici amici che si occupano di assistenza domiciliare ai malati oncologici gravi.
Si era riaperta per lei la porta del futuro, non solo possibile, ma anche buono.
In queste situazioni, quando si entra in quelle stanze, si sa già che cosa si vedrà. Purtroppo il teatro del cancro è spesso implacabilmente ripetitivo. Quello che non si sa è la posizione umana nella quale si troverà la persona. Nella mia esperienza mi permetto di dire che le posizioni umane possibili (anche se pur con decine di declinazioni), in fondo, sono solo due: o una posizione di dolorosa riconciliazione, nella quale si è trovata una via per la pace con se stessi e con gli altri; si aspetta serenamente, anche se con ovvia paura e apprensione, la morte. Oppure rabbia, tanta rabbia; verso tutti; verso Dio, gli uomini, i medici. Un mare di rabbia pronto a sommergere chiunque si avvicini. La posizione più frequente è la seconda e tante volte ho visto il dolore tramutarsi in rifiuto e rabbia.
Francesca era arrabbiata; lo manifestava appena a causa di un’astenia da non riuscire praticamente a tenere gli occhi aperti. Mi avvicinai e le parlai. Poche parole, mi guardava a tratti, senza mantenere lo sguardo. In queste situazione le frasi di circostanza sono perfettamente inutili o controproducenti. Iniziai a parlarle di me, raccontando il mio incontro con la fede; poi la mia storia di frequentazione di Dio, la mia ricerca di Lui. A un certo punto le dissi questa frase: “Anche se fai fatica a capirlo, c’è Qualcuno che ti aspetta”. In quel momento cambiò qualcosa: mi guardò fissamente e ripeté varie volte, sottovoce “C’è qualcuno che mi aspetta”. Poi, con certa sorpresa da parte mia, si confessò e gli amministrai il sacramento dell’unzione dei malati. Alla fine chiuse gli occhi e non disse più nulla. Francesca morì, accudita dal marito, pochi giorni dopo.
In un momento di coscienza, almeno per un attimo, si era riaperta per lei la porta del futuro non solo possibile, ma anche buono. La nostra vita non è semplicemente un caso, gettato nel caos della tragicità degli eventi, ma è vita desiderata, accompagnata e attesa da Qualcuno che ci ha voluti per un destino di bene.