Dopo un’assenza ventennale dalla scuola italiana nel settembre 2020 ho ricominciato ad insegnare Italiano e Storia presso una scuola superiore a Reggio Emilia. Quest’anno mi sono state affidate cinque classi per un totale di 115 studenti tra i 14 e i 17 anni. La sfida è affascinante e divertente.
Rispetto ai miei alunni di vent’anni fa, i ragazzi di oggi sono profondamente dipendenti dai social che, oramai, plasmano il loro modo di pensare, compromettendone le relazioni interpersonali, ma anche la sana capacità di contestazione della mentalità dominante. L’anno scorso sono rimasto impressionato dall’affermazione di un gruppetto di mie alunne che, pur avendo solo 15 anni, mi avevano candidamente detto di non aspettarsi nulla dalla vita. Sul momento mi sono ribellato al fatto che dei giovani guardassero così al loro futuro, ma mettendomi nei loro panni ho capito che, forse, non avevano tutti i torti. Per questi ragazzi è tutto così organizzato e “messo in sicurezza” che la vita, più che un’avventura, sembra un “grande progetto Erasmus” pianificato per loro in qualche posto là fuori dall’edificio scolastico. Come fare allora per andare incontro a questi ragazzi, così diversi da quelli che conoscevo?
Ad aprirmi gli occhi è stata un’altra studentessa, che in un tema di Italiano mi scrisse più o meno così: «Mi dicono che devo andare bene a scuola; che devo imparare l’inglese; che devo ottenere ottimi risultati nel mio sport, cioè l’atletica; che poi ci sarebbe anche il tal corso da fare, che – nonostante ora non mi serva – in futuro potrebbe essermi utile. Tutto questo mi va bene… Ma chi pensa veramente a me?». Credo che in questa domanda ci sia la chiave per entrare in rapporto con i ragazzi. Ognuno di loro ha un estremo bisogno di essere guardato in faccia, di essere preso in considerazione personalmente: oggi, invece, sembra che ci sia un disinteresse generale alla vita concreta della gente. Si sta assieme sempre in funzione di qualcos’altro, mai gratuitamente. Per questo, una sincera passione alla vita concreta dei nostri studenti – senza alcun tipo di pretesa – è l’approccio più valido per entrare in rapporto con loro. In fondo, è lo stesso modo in cui pure noi adulti e professori abbiamo bisogno di essere guardati, io incluso.
I miei studenti sono poi in maggioranza scristianizzati, al punto che non hanno nemmeno più pregiudizi sulla religione. Tra di loro ci sono anche alcuni credenti, ma sono pochissimi. Tra i banchi delle mie classi poi ci sono cinque islamici, di cui una ragazza che indossa il velo. In una situazione simile mi chiedo spesso: “Come posso parlare a loro di Cristo?” Non potendo farlo con un annuncio diretto, che difficilmente sarebbe compreso, mi sono accorto che tutto dipende dalla mia stessa presenza: il fatto che io vada a scuola vestito da prete, con il colletto – anche se non insegno religione – è già un segno inequivocabile di appartenenza. Senza che questo elimini la drammaticità della testimonianza, questa deve passare, in modo implicito, attraverso le provocazioni che possono scaturire a lezione, spiegando, per esempio, dei testi letterari oppure la visione cosmologica dell’uomo medioevale, come mi è accaduto negli ultimi giorni. Tutto può servire a testimoniare Cristo, incluso le domande estemporanee degli alunni, come in quella classe dove ero stato mandato per una supplenza. Fatto l’appello e lasciati i ragazzi liberi di studiare, uno di loro si avvicina alla cattedra, mi squadra e mi chiede a bruciapelo: «Prof, ma lei ci crede veramente?». Nella risposta a questa domanda, c’è, in fondo, tutto il senso della nostra missione.
Giovanni Brembilla è collaboratore diocesano e insegnante a Reggio Emilia. Nella foto, la piazza centrale della città.