Per un sacerdote è quasi inevitabile concepire tutta la propria vita come testimonianza. Quando una persona ci vede, deve pensare a Gesù, a cui abbiamo donato la nostra vita.
Lo capisco appieno quando giro per le stanze dei reparti dell’Ospedale Sant’Orsola, a Bologna, in cui sono cappellano. Quando un malato mi vede entrare nella sua stanza, reagisce nei modi più diversi: la maggior parte delle volte con gratitudine per la visita di un testimone di Cristo, ma molte volte con indifferenza. Qualcuno mi accoglie con curiosità, perché sono anni che ha perso ogni tipo di contatto con la Chiesa e adesso si trova davanti un prete «così giovane, come lei». Qualche volta, infine – non molte -, il malato rifiuta del tutto la mia visita.
Ci sono poi alcuni che richiedono il conforto dei sacramenti. La possibilità di poterli amministrare rappresenta per me la più grande grazia che mi sia stata donata, e quindi la forma più alta di testimonianza, perché, pur essendo peccatore, attraverso di me Gesù stesso si dona agli altri: attraverso il suo corpo – l’Eucarestia -, attraverso la riconciliazione dei peccati o la consolazione in un momento di prova.
Molto spesso i degenti (o i loro genitori) mi rivolgono domande sul senso di ciò che essi stessi o i malati intorno a loro stanno vivendo. Succede soprattutto nel reparto di pediatria: «Perché, padre, tanti bambini devono soffrire così?», mi sento chiedere spessissimo, sia dai genitori dei bambini malati sia da medici e infermieri. Domande come queste mi provocano in profondità. Non esiste la formula giusta per rispondere, ogni tentativo di trovarla può diventare violenza. Molte volte ho risposto: «Hai ragione, chiediamoglielo insieme, recitiamo una preghiera». So però per fede che la risposta a tale domanda di senso esiste, che va scoperta a poco a poco nella propria esperienza. Cerco di aiutare i genitori a trovarla, vivendo fino in fondo la responsabilità che Dio ha loro dato affidandogli i loro piccoli adesso malati.
Così non è raro che alcune persone, proprio attraverso l’esperienza dolorosa dei loro piccoli, incontrino Dio. Come Cristina e Antonio, i genitori della piccola Lucia, affetta da una grave malattia. Quando, un anno fa, bussai per la prima volta alla sua camera, il padre mi cacciò letteralmente via. Con il tempo ho insistito “delicatamente” con loro e ne è nata un’amicizia che ha veramente del misterioso. Abbiamo scoperto di avere degli amici in comune, amici che li stanno aiutando con una carità che è impossibile incontrare al di fuori dell’esperienza cristiana. Li sostengono in tutti modi, per esempio tenendogli l’altro bambino quando devono stare entrambi all’ospedale. È stata la gratitudine per aver sperimentato questa carità da parte di persone cristiane che ha fatto capire loro che Dio non li ha abbandonati, ma che li sta sostenendo come non avrebbero mai immaginato. La mamma ha cominciato a recarsi al santuario della Madonna di san Luca a chiedere la grazia alla Vergine. E adesso lei, che si diceva atea, desidera il battesimo per Lucia e per il fratellino. Ieri, all’ospedale, ho incontrato il padre. Quello stesso padre che un anno fa mi aveva quasi “cacciato”, adesso mi chiede di entrare per benedire la sua piccola.
(Foto Geraint Rowland).