La “forza” della missione durante il lockdown: una testimonianza dall’Inghilterra.

Se dovessi condensare in una sola frase ciò che lo Spirito ci ha insegnato negli ultimi mesi, direi che ci ha educato ad essere quello che dobbiamo essere.
Il lockdown ci ha costretti a scoprire aspetti della vita sacerdotale che forse davamo per acquisiti. Ad esempio, avere accolto l’indicazione della Fraternità di pregare la Coroncina della Misericordia per coloro che stavano morendo e soffrendo durante la pandemia, insieme al suggerimento di uno di noi di scrivere i nomi delle persone per cui pregare su un quaderno che poi mettevamo di fronte all’altare durante la celebrazione della messa, ha dato alla nostra preghiera maggiore concretezza e un respiro più universale. Ci ha insegnato che la preghiera è uno spazio di comunione: davanti a Dio non ci sono semplicemente io. Con me c’è tutto il mondo. Abbiamo anche imparato che la preghiera è già un lavoro, è già missione.
Poi è venuta la riscoperta dell’eucarestia: ricordo la composta commozione con cui abbiamo vissuto il triduo pasquale, la cura con cui abbiamo preparato i canti e la liturgia, la sobrietà con cui abbiamo celebrato.
Infine, trovarci di fronte alla morte di alcune persone, pregare per loro e, soprattutto nelle ultime settimane, celebrare tanti funerali, ci ha posto nella necessità di trovare parole di speranza per chi le chiedeva.
Forse, è stata un’opportunità che Dio ci ha dato per riscoprire che il cielo deve essere l’orizzonte delle nostre azioni, che la vita qui sulla terra si comprende da ciò che sta alla fine. Se l’immagine che abbiamo dell’aldilà è statica (come le religioni orientali tanto in voga ci suggeriscono, con l’idea che il mio “io” come una goccia si perderà nell’oceano), anche la nostra vita ne risentirà. Se invece l’immagine che ne abbiamo è dinamica, quella che Cristo ci ha consegnato, cioè una casa dove ognuno ha il suo posto, si capisce la centralità dell’esperienza di comunione qui sulla terra.
Durante i mesi del lockdown, abbiamo anche approfondito un lavoro di apertura reciproca, di collaborazione. Niente di spontaneo e facile. Ci siamo accorti con grande onestà che facciamo fatica ad aprirci, a confidarci le nostre difficoltà e a lasciare che l’altro entri nei nostri territori.
Ci sono stati dati momenti in cui eravamo “costretti” a lavorare insieme, come quando preparavamo le recite di alcuni episodi della Bibbia per i bambini delle elementari o quando celebravamo la messa. Ricordo che più di una persona ha deciso di partecipare in streaming proprio perché non c’era un solo prete a celebrarla: questo li faceva sentire parte di qualcosa di più ampio. Abbiamo imparato quindi che l’essere insieme comunica alle persone qualcosa che il discorso di uno di noi, magari geniale, non riesce ad esprimere con la stessa efficacia. Si tratta dell’esperienza dell’unità, forse la cosa di cui questo mondo così diviso ha più bisogno.
Ricordo che, appena cominciato il lockdown, ci siamo seduti attorno a un tavolo e ci siamo detti che questo tempo non poteva essere vissuto come una pausa dalla nostra missione. Più che un dovere, la missione per noi è una necessità primaria, come mangiare e dormire; quando viene meno, detto in modo forse un po’ banale, “ci fa stare male”.
In tanti hanno usato la parola “essenziale” per descrivere questo tempo. Noi abbiamo imparato che l’essenziale non è il poco ma il tutto, non la rinuncia a qualcosa ma la ricerca del fondo di ogni cosa. E lì abbiamo trovato Cristo, che ci stava aspettando. Anche durante il lockdown.

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