La missione è la vocazione per cui ci è stata data la vita: se tu sei vivo è per compiere una missione, altrimenti perché vivi? Vorrei raccontare la mia esperienza attraverso alcuni episodi.
Un Altro attraverso di te
Sono il sesto di otto figli. Con la mia famiglia abitavamo in un piccolo paese nella foresta, nel nord della California. La povertà di quel luogo era tale che, piano piano, gli edifici pubblici hanno cominciato a chiudere, a causa dei crolli e della mancanza di adeguati interventi di ristrutturazione. Prima la biblioteca, poi la scuola, l’ufficio postale e infine anche l’unico negozio. Per raggiungere la bottega più vicina, era necessario percorrere tre chilometri su una strada piena di saliscendi e cunette. Un giorno il mio papà, che era a casa per riprendersi da un intervento chirurgico, disse a me che avevo solo otto anni: «Vai al negozio a prendermi delle sigarette». Io piangevo e pensavo: «Sei chilometri perché papà vuole fumare». Non mi sembrava assolutamente giusto. Però sono partito. Se uno dei miei fratelli, anche quello che ha solo due anni più di me, mi avesse detto di andargli a comprare le caramelle, non ci sarei andato. Però per il papà sì.
Che cos’è un missionario? Non è una persona che, illuminata nel cuore e nella mente, si accorge di persone che stanno male in un certo posto nel mondo e allora parte per aiutarli. Questo non è un missionario. Per essere un missionario bisogna essere mandati. La condizione primaria è appartenere a qualcuno la cui autorità nella tua vita è così grande che, quando lui ti manda, parti, piangendo come me da bambino o sorridendo come quando, da prete, mi hanno mandato in Africa.
Quell’episodio a otto anni mostra un altro aspetto della missione, se si considera che sono partito per l’autorità che mio padre aveva nella mia vita e a cui appartenevo. Arrivato nel paese vicino, sono entrato nel negozio e ho detto: «Il papà vuole le sigarette». Me le hanno date, nonostante avessi otto anni. Le hanno messe nelle mie mani, ma in realtà le stavano porgendo al mio papà. E lo sapevano, perché se uno è mandato non è lui che arriva, quanto piuttosto chi lo manda. Non sei tu a partire per aiutare, è un altro che vuole arrivare attraverso di te, come il mio papà è arrivato a comprare quelle sigarette attraverso di me.
La dimensione essenziale della vita cristiana
La missione è, perciò, la dimensione essenziale della vita cristiana, il cuore del battesimo: Gesù stesso si definiva come «Colui che il Padre ha mandato». È ciò che sottolinea sempre papa Francesco, mettendoci però in guardia da una possibile ambiguità: se la Chiesa si comporta come una ONG, allora non è più Chiesa. Che cosa intende con l’immagine della ONG? Persone che aiutano per il desiderio di fare del bene e non per la coscienza di essere mandati. Si capisce allora quanto rispondeva madre Teresa di Calcutta a coloro che le chiedevano che cosa potessero fare per il prossimo: «Chi non dà Dio, dà troppo poco». E replicavano: «Se io do tutti i miei soldi, ho dato troppo poco?». «Sì». «Che cosa intendi? – insistevano – Io do tutto il mio tempo, tutte le mie energie, tutta la mia buona volontà. È troppo poco?». «Sì». «Io ho dato la mia vita, ho dato troppo poco?». «Sì! Troppo poco». Non sei tu ciò che il mondo attende, ma il Padre che ti manda; per questo ognuno deve vivere ogni gesto nella grande coscienza dell’appartenenza al Padre.
Tre giorni dopo essermi laureato, sono andato a lavorare in Marocco con un contratto di due anni come insegnante d’inglese in un liceo scientifico. Sono arrivato insieme a un gruppo di sessanta professori americani con cui avrei partecipato ad uno stage, per poi separarci nelle rispettive destinazioni. Io ero uno dei pochi cristiani, per quanto ancora incerto, e molti compagni mi guardavano con sospetto: «Che cosa vuoi fare qui in questo mondo musulmano? Ci creerai problemi, perché siete matti, voi cristiani. Ti consideri in missione?». Non avendo ancora capito molto del cristianesimo, rispondevo: «Non mi sembra, sono solo curioso di vedere che cosa vuole Dio. Ma io sono venuto qui a lavorare». Non basta andare in un Paese lontano per essere missionario. Tuttavia, neanche quando sono andato in Kenya, da prete della Fraternità san Carlo, vivevo l’appartenenza a Dio quanto è necessario per poterla comunicare agli altri. Sono arrivato da solo e ho subito cominciato a lavorare tantissimo: il dialogo tra musulmani e cristiani, l’insegnamento in università, la guida del movimento, la tesi di licenza e le conferenze. Ero attivissimo, ma non missionario: ciò che mi muoveva era il desiderio di far vedere a Dio che meritavo le sue grazie, che ero all’altezza della vocazione. Queste ragioni non erano soddisfacenti. Infatti, dopo pochi mesi, ho lasciato quella missione e non vi sono più tornato.
Incontrare Colui che ti manda
Una volta rientrato negli Stati Uniti, sono stato destinato al lavoro in ospedale. I preti delle parrocchie vicine mi chiedevano come facessi a stare con tutti quei malati, entrando in una stanza dopo l’altra, ogni volta in una situazione più difficile e dolorosa della precedente. Io non avevo risposte: per otto anni sono entrato in quel luogo con paura, al pensiero di ciò che avrei dovuto affrontare. Eppure continuavo ad entrarci. Perché lo facevo? Perché avevo, ed ho, un’unica certezza che nella mia esperienza ho verificato centinaia di volte, indipendentemente dalla gravità della situazione: se uno è mandato, chi lo manda viene ad incontrarlo proprio lì dove lo ha mandato. Io allora potevo lavorare in quell’ospedale per incontrare Chi mi aveva mandato lì. Infatti, così avvenne. Non subito e non sempre, ma avvenne.
Nel Vangelo di Marco emerge proprio questa dinamica quando, dopo avere incitato gli undici ad andare in tutto il mondo per predicare la buona novella, Gesù scompare dalla loro vista ascendendo al cielo. Il racconto però si conclude con un ultimo versetto: Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che l’accompagnavano (Mc 16,20). Dopo l’ascensione, gli apostoli hanno potuto rivedere il maestro solo nel momento in cui hanno cominciato a condividere la loro esperienza di Cristo. E senza questa stessa esperienza, per ogni cristiano, anche oggi, non è possibile essere certo della salvezza portata da Gesù. Essa infatti rimane un’idea, qualcosa di cui si parla, magari dopo tante belle esperienze, senza però essere davvero certi che Lui è il Salvatore del mondo. La dimensione missionaria quindi è essenziale al cristianesimo perché l’esperienza non sia ridotta a ideologia, progetto o schema e possa invece essere illuminata da una verifica nella vita.
(Foto John Powell)