Ci dirigiamo ora verso sud. A pochi chilometri da Cafarnao, si trova un luogo molto verdeggiante, che porta il nome di «Tabgha». Questa parola araba è la corruzione del termine greco heptàpegon, che significa «sette sorgenti». In effetti, al tempo di Gesù, questo luogo era ricchissimo di acqua e lo è ancora oggi, sebbene le sorgenti rimaste attive siano soltanto tre.
A Tabgha si trovano due santuari cattolici, che ricordano due differenti episodi del Vangelo. Il primo di essi sorge nella zona in cui, secondo la tradizione, Gesù ha compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Il luogo appartiene ai Benedettini tedeschi, che hanno acquistato il terreno nel tardo ’800, più o meno nello stesso periodo in cui i Francescani hanno acquistato la maggior parte dei loro. Anche i Benedettini, come hanno fatto quasi sempre i Francescani, una volta entrati in possesso del sito hanno effettuato degli scavi archeologici. A conferma di quanto affermato dalla tradizione, è stato scoperto il pavimento di una chiesa bizantina del quarto secolo dedicata proprio alla memoria della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dietro l’altare, infatti, è stato rinvenuto un mosaico, diventato ormai molto famoso, che rappresenta un cestino posto tra due pesciolini. Il cestino contiene quattro pani, significativamente, perché il vero pane è Gesù.
Il luogo in cui ci troviamo è realmente lo scenario nel quale è avvenuto il miracolo? Alcuni fattori sembrano confermarlo. Si tratta infatti di un sito nel quale, grazie alla presenza delle sorgenti d’acqua, abbonda l’erba fresca e il vangelo di Giovanni dice appunto che c’era molta erba in quel luogo (Gv 6,10). C’è anche una collina alta e ripida, dalla quale Gesù avrebbe potuto parlare a un gruppo molto numeroso.
Esistono però altri elementi che sembrano andare in senso contrario. In particolare non si può trascurare che secondo il Vangelo il fatto avvenne sull’altra riva del lago rispetto a Cafarnao (cfr. Gv 6,1). Tuttavia il luogo nel quale ci troviamo è vicino a Cafarnao. E poiché, stando al racconto di Marco, le occasioni in cui Gesù compì questo miracolo furono due, è lecito pensare che almeno una volta il prodigio sia accaduto qui.
In ogni caso la chiesa ritrovata risale alla prima parte del quarto secolo. Possiamo dunque essere certi, venendo a pregare in questo luogo, di unirci a una tradizione che dura da diciassette secoli.
Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, realizzato da Gesù per sfamare le moltitudini accorse ad ascoltare la sua parola, è certamente uno dei più famosi ed è l’unico del quale si parli in tutti e quattro i Vangeli. Perciò è quanto mai opportuno meditare sull’importanza di questo gesto eccezionale del Signore.
Iniziamo leggendo il testo. Tra i quattro racconti, prediligo quello di Giovanni, perché nella sua memoria particolare risulta più evidente come il gesto del Signore metta in luce la vera natura della fede (in effetti, quando mi trovo a riflettere su cosa sia la fede, mi viene spesso in mente questo luogo tanto verde).
Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato (Gv 6,1-13).
Tanti studiosi della Bibbia hanno evidenziato che Gesù, in diversi momenti, si presenta come colui che realizza il nuovo esodo. Egli è il nuovo Mosè, l’uomo inviato per condurre Israele dalla schiavitù alla libertà, la guida verso il compimento delle promesse fatte da Dio ad Abramo. Anche l’episodio che abbiamo appena letto va inteso in questa prospettiva. Tutti i Vangeli, infatti, lo legano espressamente all’insegnamento dato da Gesù dall’alto di un monte (Gesù salì sul monte) e il monte, nell’immaginario ebraico, ricorda Mosè che ascolta la parola di Dio per poi trasmetterla al popolo.
Il riferimento a Mosè ci spinge a pensare al cammino degli Ebrei nel deserto. Anche allora avvenne un miracolo relativo al cibo. Quando il popolo ebbe fame, infatti, Dio fece piovere dal cielo un pane miracoloso. Non si capiva cosa fosse né da dove venisse. Per questo gli Ebrei si domandarono, nella loro lingua: «Man hù?», che significa: «Che cos’è?», e da quella espressione deriva la parola «manna» (cfr. Es 16,1-16). Similmente, moltiplicando i pani e i pesci, Gesù procura del cibo al popolo che si trova in una zona disabitata ed è affamato.
Prima del miracolo, però, Gesù scambia alcune battute con i suoi discepoli. La folla lo guarda e lui, il Signore, l’uomo che gli apostoli avevano deciso di seguire abbandonando tutto ciò che avevano, si rivolge improvvisamente a Filippo. Dall’alto della sua indiscussa superiorità e della sua autorità pienamente riconosciuta, Egli formula una domanda strana, che sembra fuori luogo e sproporzionata: Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?
Mettiamoci nei panni del povero Filippo. Come avrà reagito a quella richiesta che non sembrava consentire alcuna possibilità di risposta? Probabilmente egli si sarà sentito come l’ultimo e il più giovane dipendente assunto in una grande azienda, al quale il datore di lavoro, il fondatore della ditta, colui che ha il potere di assumere e licenziare, chiedesse di trovare una soluzione immediata ai problemi finanziari della società. Filippo, cioè, avrà avuto l’impressione di essere trattato in modo ingiusto. Nella sua risposta si nota una certa irritazione: Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo.
Un denaro corrispondeva alla paga per un intero giorno di lavoro. Quindi Filippo fa presente a Gesù che se anche tutti gli apostoli avessero lavorato dall’alba al tramonto per diciassette giorni, sotto il sole, sudando e soffrendo, non avrebbero potuto neppure cominciare a soddisfare il bisogno della gente. Gesù, però, ha in mente ben altro e non è affatto preoccupato di reperire risorse materiali. Il Vangelo ci dice che Egli si rivolge a Filippo per metterlo alla prova. Domandiamoci dunque cosa significhino queste parole.
Chi ci mette alla prova, sottopone alla sua valutazione qualcosa di noi, per esempio le nostre capacità matematiche, oppure la nostra pazienza, o la nostra forza fisica. Gesù, di Filippo, mette alla prova la fede. Il discepolo non supera l’esame, perché la sua risposta non tiene conto della presenza del Signore. Lo capiamo leggendo il seguito. L’atteggiamento di Andrea, che interviene subito dopo Filippo, ci aiuta infatti a capire quale sia la vera natura della fede. (Bisogna tener presente che Andrea era il grande compagno dell’evangelista Giovanni. I due erano insieme fin dall’inizio, quando incontrarono Gesù per la prima volta. Infatti Giovanni, nel suo racconto, parla sempre di Andrea con calore e positività. Filippo, invece, a quanto pare, non riscuoteva presso l’evangelista la stessa simpatia, visto che solo nel testo di Giovanni si leggono frasi pronunciate da lui e queste frasi risultano sempre bisognose di correzione da parte di Gesù).
Andrea dice a Gesù: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci. Ecco la fede! Probabilmente anche Filippo aveva visto quel ragazzo, ma non lo aveva considerato. Il motivo, evidente, è la clamorosa sproporzione fra l’enormità del bisogno e la povertà del contenuto del cestino. Filippo aveva ritenuto che l’eventualità di rivolgersi al ragazzo non meritasse neppure di essere presa in considerazione. Da un certo punto di vista non possiamo dargli torto. Infatti anche noi, normalmente, ci comportiamo come lui. Misuriamo, cioè, le varie possibilità di soluzione ai bisogni che ci troviamo ad affrontare e, quando le risposte che ci vengono offerte ci sembrano inadeguate, non le prendiamo nemmeno in considerazione, se non per il disprezzo viscerale che esse ci generano. Del resto, per fare un esempio, se esponessimo a un conoscente le nostre difficoltà a pagare il mutuo per la casa e quello, per tutta risposta, si offrisse di regalarci un euro e mezzo al mese, quasi certamente ce ne andremmo sbattendo la porta.
Andrea dice a Gesù: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci”. Ecco la fede!
L’atteggiamento di Andrea, però, ci apre altri orizzonti. Diversamente da Filippo, egli non disprezza quel ragazzo per la pochezza del suo cibo, ma lo prende per mano e lo accompagna da Gesù. Certo Andrea si avvicina al Maestro con molto pudore, tanto da chiedersi: Ma che cos’è questo per tanta gente? Cinque pani e due pesci. Filippo li aveva visti e aveva pensato che fossero niente, ma non era la verità. Quei pani e pesci esistevano, pur essendo del tutto inadeguati. Andrea li considera perché è cosciente del fatto che c’è Gesù. La sua fede lo porta a dire: «Non so a cosa potrebbe servire un aiuto così irrilevante, ma lo porto da Lui e vediamo».
La visione di Andrea è dominata dalla consapevolezza della presenza di Gesù. Per questo egli non disprezza la realtà, neppure quando essa appare così poco corrispondente rispetto ai bisogni reali, stringenti e drammatici. Pur umiliato dal fatto di trovarsi fra le mani una risposta tanto povera, Andrea la offe a Gesù con fiducia.
Normalmente noi non accettiamo questo tipo di umiliazione e quando riteniamo la realtà sproporzionata rispetto alle nostre necessità, allora la rifiutiamo. Semplicemente ci dimentichiamo che c’è Gesù. Diciamo «possibile» o «impossibile», «giusto» o «erroneo», «vero» o «falso»… parliamo di progetti e di strategie, di riuscite e di fallimenti, di vita e di morte… ma non partiamo dal fatto che c’è Gesù. Per questo certamente sbagliamo, perché non vediamo la bontà che può esserci, ma solo noi stessi. Così finiamo per disprezzare non soltanto le cose, come Filippo, ma anche la nostra stessa persona, perché ci troviamo a fare continuamente i conti con la nostra incapacità di amare, di perdonare, di capire, di costruire, di obbedire alla verità, di operare il bene. Sprechiamo tanta parte della nostra esistenza vivendo con sdegno verso noi stessi per la nostra piccolezza di fronte a ciò che la vita ci chiede. Dovremmo piuttosto chiedere a Dio di imparare a dire: «Qui c’è Gesù».
La fede cristiana consiste nel riconoscimento che Gesù c’è. Se ci apriamo a questa constatazione fiduciosa, possiamo abbracciare la nostra condizione umiliata, portandola continuamente davanti a Lui, curiosi di vedere ciò che Egli riuscirà a fare della nostra povera persona. Allora l’esistenza cambia. Da incubo, dove tutto grida morte, fallimento e sconfitta, essa si trasforma in una bellissima avventura. Perfino le circostanze più difficili diventano entusiasmanti, perché ci offrono la possibilità di essere condotti a un destino buono.
(Estratto da: V. Nagle, Viaggio in Terra Santa, Edizioni Ares 2020, a dicembre in libreria).