Taipei, Taiwan: il lavoro quotidiano di una “piccola grazia” ci insegna a non dimenticare il miracolo che abbiamo ricevuto.

Sciami di motorini che si infilano in tutte le strade del centro e della periferia. Metropolitane e mezzi di superficie stracolmi di gente silenziosa e ordinata. Negozietti che vendono cibo tipico cinese da consumare in fretta perché bisogna tornare subito a lavorare. Mercatini tradizionali, aperti ogni giorno dell’anno, in ogni angolo della città e che pullulano di massaie al mattino e di giovani alla sera. Studenti che escono all’alba e tornano a casa quando è già notte. Baracchini con giovani ragazze che vendono bacche da masticare, eccitanti per chi ha bisogno di lavorare fino a diciotto ore al giorno.
Così è la vita in una qualsiasi periferia di Taipei, a conferma dello stereotipo che vuole gli asiatici instancabili lavoratori. Davanti a questo spettacolo quotidiano, ti domandi: perché tanto affannarsi? Che senso ha tutto questo rincorrere il tempo? A che cosa stanno sacrificando la loro vita? Ma la stessa domanda, potremmo rivolgerla anche a noi stessi: che senso ha il nostro lavoro? A chi interessa veramente quello che faccio? E io, che cosa cerco davvero nel mio “fare” di tutti i giorni?
In ognuno di noi vive un’energia creativa che ha bisogno di trovare uno sfogo o una realizzazione pratica: l’inoperosità, l’ozio non corrisponde a ciò che desideriamo davvero. Eppure questa energia, questo impulso a creare, non basta, da solo, a giustificare il nostro alzarci al mattino per andare al lavoro, in ufficio, a scuola… Che cosa cerchiamo quando lavoriamo? Che cosa affermiamo quando portiamo a termine un affare, quando sbrighiamo una pratica complessa, quando lavoriamo nella nostra bottega o insegniamo ai nostri alunni?
Xiao En è una donna di cinquant’anni, ma sembra una bambina, piccola e minuta. Erano in tanti a pensare che non sarebbe dovuta mai nascere. Il padre non l’ha mai conosciuto. Gli stessi medici, che avevano pronosticato una gravidanza a rischio, prevedevano che non ce l’avrebbe mai fatta. Persino la mamma, abbandonata e disperata, avrebbe preferito non dare alla luce una seconda figlia da tirare su da sola. E invece Xiao En, che significa “piccola grazia”, è nata lo stesso e ancora oggi porta, evidenti, su di sé i segni di quella gravidanza tormentata. Non cammina bene, dalla sua bocca escono suoni quasi indistinti, per cui, se non la conosci, non capisci cosa stia dicendo. Si è trasferita a Taiwan dall’Indonesia a vent’anni o giù di lì, per sposare un uomo che aveva troppo pochi soldi per assicurarsi una moglie taiwanese, disposto a prendersi in casa anche una donna con qualche difetto fisico.
È arrivata alla parrocchia di Taishan un po’ per caso, con la sua camminata lenta e un po’ storta, con il suo modo di parlare senza consonanti, con le sue mani che non riesci a stringere per bene. Xiao En ha un lavoro remunerato che la occupa un paio d’ore al giorno: fa la donna delle pulizie presso un’azienda a Wugu. In più, prende dallo Stato il sussidio per la sua invalidità. Per questo ha sempre avuto tanto tempo libero: ma siamo a Taiwan, non si può stare con le mani in mano… Così al mattino, dopo aver svegliato i suoi figli (perché, nonostante tutto, Xiao En ha tre figli), dopo aver preparato per loro la colazione e averli mandati a scuola, quella donna bambina prende il bus e si dirige, lenta ma sempre puntuale, alla nostra parrocchia di San Francesco Saverio a Taishan. Arriva accompagnata dalla madre anziana, quella che avrebbe preferito che lei non fosse nata, e che lei ha da sempre perdonato. E dopo la messa inizia il suo vero lavoro. Comincia dal pulire la chiesa, poi passa al piazzale, al centro parrocchiale, raccoglie la spazzatura, e, infine, si dedica ai suoi fiori e alle sue piante: nel giro di pochi anni, ha trasformato il muro annerito e sporco del nostro cortile in un angolo fiorito, che ormai tutti chiamano “il giardino di Xiao En”.
Guardi lei lavorare in silenzio ogni giorno, senza che nessuno glielo abbia chiesto, senza che nessuno la paghi per questo, senza che tutto il suo sforzo le faccia guadagnare qualche scatto di carriera o le venga computato come straordinario, e ti chiedi chi glielo fa fare… Eppure, questa volta, la risposta è più immediata: in mezzo a gente che ha fatto del lavoro il proprio idolo, il proprio tutto, a dispetto di quelli per cui ciò che conta sono i soldi, la carriera, la sicurezza economica, per Xiao En lavorare è un modo per rendere grazie di quello che ha ricevuto. Tutta la sua vita è un unico grande miracolo e lei vive per restituire ciò che le è stato donato. E così, dà il suo contributo per portare un po’ di bellezza in un posto in cui se ne vede poca, si adopera perché chi viene in questo luogo faccia la stessa esperienza che ha vissuto lei.
Guardi lei e realizzi che l’unico scopo per cui lavorare è quello di contribuire a creare luoghi in cui ogni persona si senta accolta e valorizzata per la sua grandezza oggettiva. Ti diventa chiaro che l’unica ragione per cui impegnarsi, per cui costruire qualcosa è aver ricevuto una grande grazia. Grazie a lei capisci che cos’è un’opera: intuisci, cioè, che l’unico scopo che dà dignità al mio e al nostro lavoro è quello di contribuire, come fa Xiao En, a costruire il Regno di Dio.

 

(nella foto, una strada di Taipei)

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