Il mistero della vita è nelle mani di un Altro. Il racconto di don Santo Merlini, attraversando le corsie di un ospedale.

Da pochi mesi, svolgo il servizio di cappellano presso l’ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Venerdì scorso, mentre facevo il mio solito giro di visite ai pazienti, mi telefona Nicola. Sua moglie Rossella, alla ventisettesima settimana di gestazione, è dovuta andare d’urgenza in sala parto. C’è il rischio di una nascita prematura. Così corro da lui. I medici ci dicono che il piccolo Antonio è nato di appena 900 grammi ed è stato portato in terapia intensiva. Il padre ancora non l’ha visto. Entro nel reparto di Terapia Intensiva Neonatale e mi commuovo alla vista del piccolo Antonio che, circondato dai medici, prende il suo primo contatto con la realtà, gli occhi spalancati, agitando mani e piedini. Mi sembra incredibile che una tale meraviglia, pochi minuti prima, fosse ancora dentro la pancia della mamma! Chiedo subito ai medici se la situazione è delicata e se ritengono che il bambino debba essere battezzato d’urgenza. Loro mi dicono di no, le sue condizioni sembrano buone. Finite le prime cure e i controlli medici, il padre viene chiamato e tranquillizzato. Anch’io, più sereno, torno a casa.
Purtroppo, poche ore dopo mi richiamano dall’ospedale: il piccolo non ce l’ha fatta. Trattandosi di un caso di estrema urgenza, il medico ha provveduto a battezzarlo. In quel momento, mi crolla il mondo addosso. Per settimane avevo incoraggiato i genitori a sperare e a chiedere il miracolo. Mi ero rallegrato con loro tutte le volte che i medici davano una notizia positiva. E adesso arriva questa notizia drammatica: a che cosa è servito sperare tanto? Per un momento, dubito della bontà di ciò che ho fatto: perché sostenere una speranza che poi si rivela inutile? Cosa dirò ai genitori?
La mattina dopo torno in ospedale, e lì la sorpresa: il papà e la mamma, nonostante la profonda sofferenza, vivono una grande serenità. La mamma ha potuto tenere in braccio il suo bambino e cullarlo. Adesso Antonio riposa in pace e anche nei suoi genitori traspare quella pace che viene dalla certezza di avere fatto tutto il possibile, per poi arrendersi alla volontà di Dio. Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine del piccolo Antonio che si muove dentro l’incubatrice. E penso: chi siamo noi per decidere che non deve vivere? Infatti molti medici in questi casi consigliano di abortire. Le poche ore della vita di Antonio mi ricordano che siamo solo custodi di qualcosa che ci è stato donato e che ci può venire richiesto in ogni momento.
(Foto Michael Levine-Clark)

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