Quando ho annunciato il mio ingresso in seminario, qualcuno mi ha chiesto anche se fossi davvero convinto di ricominciare a studiare. In realtà non mi davo troppo pensiero al riguardo, in fondo ero stato uno studente fino a quel momento, le novità da considerare mi sembravano altre. È successo però che, dopo molte ore spese tra lezioni e studio, soprattutto con la nuova scuola interna di filosofia, la “Benedetto XVI”, sono emerse delle domande rispetto al tempo passato sui libri.
Qualche tempo fa un’anziana signora, ospite in una casa di riposo di un quartiere periferico di Roma dove faccio caritativa il sabato, mi ha aiutato inconsapevolmente a chiarirmi. La signora Anna era arrivata da poche settimane. Una donna sveglia, molto lucida, madre di numerosi figli, alcuni dei quali già nonni con diversi nipoti. Con lo sguardo triste, stava sempre a ricamare seduta sulla sua sedia a rotelle. Un sabato decido di fermarmi da lei per qualche minuto in più. Dopo un po’ di chiacchiere, mi confida la sua profonda amarezza per la prospettiva di concludere gli ultimi anni della sua vita in quel luogo, sola e lontana da casa.
«Mi hanno lasciata qui – dice con rabbia – dopo che per una vita li ho tirati su e ho dato loro una cultura». Mi sono chiesto su che cosa recriminasse esattamente quando parlava di cultura. Poteva aver dato loro “una casa” e rimproverarli per averla lasciata lì con la scusa del poco spazio. Poteva dire di aver trovato loro “un lavoro” e accusarli di aver accampato la scusa di non avere sufficiente denaro per accudirla.
Le sue parole, però, chiamavano in causa la cultura.
Credo si riferisse, in fondo, alla cultura intesa come possibilità di distinguere il bene dal male, di rendere più umani il pensare e l’agire. Ho sempre vissuto un certo disagio e indolenza per la cultura intesa come pura acquisizione di informazioni o come una carta in più da giocare sul lavoro. Questa sua affermazione, invece, intesseva la cultura con la vita, con la possibilità di dare forma al pensiero, plasmare l’azione, acquisire una consapevolezza del bene e offrire un’ipotesi per affrontare sacrifici come quello che una famiglia compie decidendo, ad esempio, di accogliere in casa un genitore malato che necessita di cure e attenzioni.
Guardando ai mesi trascorsi nella scuola “Benedetto XVI”, dedicati allo studio della filosofia moderna e contemporanea, mi sono però reso conto che i libri da soli non bastano a portare a termine questo compito. Pensare di conoscere il bene e il male da soli, al di fuori di un legame che ci generi, è una grande tentazione. Il termine di paragone con i filosofi moderni, l’arte, la letteratura, la storia studiati in questi mesi, è stata la nostra vita qui nella Fraternità. Pur avendo incontrato Cristo, la lunga parabola della modernità, che ha convinto l’uomo dell’inutilità di Dio, influenza nel profondo il modo di concepire noi stessi, il mondo e gli altri. In un certo senso, siamo medievali e siamo moderni. Riconosciamo i frutti dell’obbedienza, ma cerchiamo continuamente spazi di autonomia. Viviamo la bellezza della comunione, ma attendiamo l’occasione per distinguerci dagli altri, per farci notare. Siamo perdonati, ma per amor proprio non riusciamo a perdonare noi stessi. È solo attraverso un’esperienza viva di condivisione, di correzione fraterna, di figliolanza e di perdono, che lo studio diventa utile per precisare ciò che è bene e ciò che è male, chi è l’uomo e chi è Dio. Quel giorno alla signora Anna non ho risposto niente, ma l’andare da lei ogni sabato è la risposta concreta di una cultura che nasce dalla fede: il tuo solo esserci, poiché Dio lo permette, vale il mio tempo e il mio sacrificio.
Tommaso Badiani, toscano, 27 anni, è al secondo anno di seminario. Nella foto, i seminaristi in visita al Sacro Speco di Subiaco.