Sono passati otto mesi dal mio arrivo in Messico ma sembrano di più: essere qui come missionario, infatti, ti fa entrare rapidamente nel vivo delle relazioni. Ti trovi a condividere le delicate esperienze che normalmente sono relegate nella sfera privata. Questo lega nel profondo. È un compito che richiede tanta umiltà e ironia, serietà e senso delle proporzioni. Non sei Dio ma partecipi della sua presenza tra gli uomini.
Uno dei lavori che mi occupa più tempo è quello con i ragazzi, divisi in due gruppi, quello dei piccoli e quello dei grandi. Si tratta di un lavoro molto bello. In loro tutto è trasparente: il bene, il male, la contentezza, la delusione. Non riescono a nascondere i sentimenti come fanno gli adulti, oppure ci provano, ma sono ancora inesperti. Uno dei miei preferiti, José (possiamo chiamarlo così), ha tredici anni. La mamma è messicana, il babbo, guineano, vive in Africa e ha abbandonato moglie e figlio. José è conosciuto dai genitori e dai bambini della zona perché alza le mani con facilità. Si è avvicinato alla parrocchia quasi casualmente. Un giorno eravamo nel parco a giocare con i ragazzi e lui si è unito a noi; da allora, ha continuato a venire, creando non pochi problemi. Ogni volta strattona qualcuno, si arrabbia e litiga. Un pomeriggio ero da solo con il gruppo dei ragazzi. Durante un gioco, José ha spinto un compagno contro uno scalino. Per fortuna il bambino non si è fatto male, ma ho dovuto riprendere José. Come mi avvicino, grida: «Non toccarmi!». Mi si è gelato il sangue. Non era mia intenzione toccarlo, ma il solo fatto che questo fosse stato il suo primo pensiero mi ha fatto percepire la violenza a cui era abituato, la sua paura. Così gli ho detto che non l’avrei toccato, ma che per lui il gioco finiva lì. Se n’è andato. La sera sono passato da casa sua, per salutarlo. Mentre uscivo, José mi ha raggiunto e mi ha detto, con un po’ di imbarazzo: «Scusami per oggi. Scusami per averti urlato contro».
José a scuola è un disastro, così adesso ci siamo messi a studiare insieme. Abbiamo stilato un programma di studio da seguire quando viene in parrocchia. Mi faccio prestare il suo fucile ad aria compressa… se arriva in ritardo, gli sparo!Due cose mi colpiscono nel lavoro con i ragazzi. La prima è che, proprio per questa trasparenza, se si è attenti, c’è sempre un momento in cui si intravede il loro io più vero, un momento in cui, attraverso i tanti strati della personalità che tenta di esprimersi, si rivela quel punto in cui abitano i desideri più profondi. Questi momenti, che a volte sono piccoli istanti, richiedono un intervento immediato. Come pescatori, dobbiamo trovare il momento di tirare su la lenza, agganciare il ragazzo e rimanere fedeli a quel punto di luce, più di quanto lui stesso sia capace di fare. La seconda cosa che mi fa riflettere è che tra pochi mesi io tornerò in seminario a Roma. Incontriamo tante situazioni difficili come quella di José, di fronte alle quali spesso domina un grande senso di impotenza e preoccupazione, per il poco tempo che possiamo offrire. È necessario entrare nella prospettiva del grande disegno con cui Dio richiama a sé ogni cosa, ogni uomo, ogni evento. Siamo parte attiva di questa ricapitolazione, di cui però non conosciamo né le vie né gli sviluppi. La mia strada oggi si incrocia con questi ragazzi, percorriamo un pezzo di strada l’uno a fianco dell’altro, ma solo Dio vede l’insieme.
(Nell’immagine, Tommaso Badiani con alcuni ragazzi a Città del Messico).