Vorrei guardare la chiamata che avete ricevuto e il cammino di questi anni di seminario a partire dal brano del vangelo di Marco in cui si narra la guarigione del sordomuto.
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!” (Mc 7,31-37).
1. Effatà: aprire la vita all’amore di Cristo
Le parole che utilizza Gesù in questo brano, accompagnando il miracolo, ci aiutano a capire cosa è realmente accaduto a questo uomo. Era sordo e muto. Non poteva ascoltare e parlare, e quindi non poteva comunicare. Viveva una chiusura, un impedimento a entrare in comunione con gli altri.
Il miracolo di Gesù consiste nell’aprire la vita di quest’uomo: effatà. A che cosa si apre? Certo si apre al mondo e ai rapporti, può ascoltare e parlare. Ma in particolare si apre al rapporto con Cristo, può ascoltare lui e parlare con lui. I miracoli di Cristo sono sempre legati alla fede, cioè al rapporto della persona con lui. Dopo il miracolo, infatti, lui e i suoi amici esclamano: ha fatto bene ogni cosa. È un riconoscimento della potenza divina di Cristo. È un atto di fede.
Lo scopo di Gesù è dunque aprire quest’uomo alla fede. Non si tratta solo di restituire il senso dell’udito e quindi della parola. Si tratta di riaprire i cosiddetti sensi spirituali, cioè quelle capacità interiori che permettono di riconoscere la presenza di Dio.
Molto spesso i nostri sensi spirituali sono intorpiditi. La nostra vita è chiusa in se stessa, ci sentiamo offuscati nel riconoscere la presenza di Dio. Facciamo fatica a pregare, facciamo fatica a vedere la sua opera nel mondo, a provare verso Dio gratitudine o commozione. Siamo sordi al suo agire nel mondo, e così tutto diventa piccolo e misero.
«Non esiste soltanto la sordità fisica, che taglia l’uomo in gran parte fuori della vita sociale. Esiste una debolezza d’udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro tempo. Noi, semplicemente, non riusciamo più a sentirlo – sono troppe le frequenze diverse che occupano i nostri orecchi. Quello che si dice di Lui ci sembra pre-scientifico, non più adatto al nostro tempo. Con la debolezza d’udito o addirittura la sordità nei confronti di Dio si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con Lui o a Lui. In questo modo, però, viene a mancarci una percezione decisiva. I nostri sensi interiori corrono il pericolo di spegnersi. Con il venir meno di questa percezione viene circoscritto poi in modo drastico e pericoloso il raggio del nostro rapporto con la realtà in genere. L’orizzonte della nostra vita si riduce in modo preoccupante. […] Il Vangelo ci invita a renderci conto che in noi esiste un deficit riguardo alla nostra capacità di percezione – una carenza che inizialmente non avvertiamo come tale, perché appunto tutto il resto si raccomanda per la sua urgenza e ragionevolezza; perché apparentemente tutto procede in modo normale, anche se non abbiamo più orecchi ed occhi per Dio e viviamo senza di Lui. Ma è vero che tutto procede semplicemente, quando Dio viene a mancare nella nostra vita e nel nostro mondo?».
La nostra vita ha bisogno di essere riaperta all’ascolto di Dio, alla comunione con Lui. Siamo entrati in seminario perché abbiamo scoperto che Cristo è tutto, è colui che merita il nostro cuore e la nostra ragione, tutta la nostra vita, e allora vogliamo imparare ad ascoltarlo, a parlare con lui. Siamo qui perché desideriamo che la vita si apra a Cristo. E come può succedere?
2. Gli condussero un sordomuto: il ruolo della compagnia
Il sordomuto non arriva da solo a Cristo. É accompagnato da alcuni amici. Addirittura, in alcuni momenti non si distingue il sordomuto dagli amici. Dopo il miracolo, per esempio, Gesù si rivolge a tutti loro, e tutti insieme compiono l’atto di fede esclamando: ha fatto bene ogni cosa. La compagnia è quasi un soggetto unico davanti a Cristo. É una verità permanente della nostra vita cristiana: non c’è salvezza, non c’è Cristo, senza il suo corpo che è la Chiesa. Nella nostra vita vi sono due momenti che in modo paradigmatico richiamano questo aspetto. Il giorno del battesimo, quando qualcuno ci ha condotto da Cristo e per la prima volta ci è stato detto, nella liturgia, effatà, apriti. Nel battesimo, la nostra vita è stata aperta alla comunione con Cristo attraverso la compagnia della Chiesa. Il secondo momento è l’incontro con il movimento, dove questa comunione con Cristo è diventata esistenzialmente consapevole, e così la vita ha continuato ad aprirsi alla comunione con Dio, che è il destino finale che ci attende.
Il vangelo e la nostra storia dicono una cosa decisiva: l’apertura della vita a Cristo è un evento ecclesiale. Non siamo noi per primi ad andare a Cristo, è la Chiesa che ci conduce. E la guarigione che Cristo opera nella nostra vita non riguarda solo noi, ma tutta la Chiesa.
Inoltre, come Cristo nel vangelo compie il miracolo attraverso gesti concreti – toccare delle orecchie e utilizzare la saliva –, Cristo ci raggiunge e ci fa camminare oggi attraverso la concretezza dei fratelli. Anche la nostra guarigione avviene attraverso gesti concreti: uomini con dei nomi, dei temperamenti, delle spigolosità e delle grandezze. È la concretezza stupefacente e scandalosa della Chiesa, per cui Dio si fa vicino attraverso degli uomini: chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (1Gv 4,20).
Che la conversione della nostra vita avvenga attraverso la Chiesa suscita in noi due sentimenti. Innanzitutto la gratitudine, per la nostra storia e per il nostro presente, per tutti quei volti che hanno permesso e permettono a Cristo di toccarci e di guarirci. Volti che ci hanno accompagnato per anni o che abbiamo incontrato per pochi minuti. A volte, volti che non abbiamo mai conosciuto direttamente, come ad esempio don Giussani. Dobbiamo imparare a vivere di gratitudine, che è il sentimento più ragionevole per chi ha incontrato Cristo.
Il secondo sentimento che nasce è il desiderio di appartenere e consegnarsi ora a questa compagnia, con tutto il cuore e tutta l’intelligenza, perché Cristo possa continuare ad aprire la vita alla comunione con lui.
3. Pregandolo di imporgli la mano: bisognosi di redenzione
Il miracolo avviene nel territorio della Decàpoli, cioè in un territorio lontano dal vero Dio. È significativo che Gesù compia un miracolo lì. È indicativo di una situazione di lontananza, di assenza di fede, che è appunto la vera sordità da cui bisogna essere guariti. La nostra vita può essere ancora lontana da Dio, senza di Lui. Noi abbiamo bisogno di essere redenti. Giacomo Biffi diceva che «ci sono nel mio cuore interi continenti in cui la croce di Cristo non è ancora stata piantata». Ci sono in noi interi territori senza Dio, chiusi alla sua parola, e quindi bisognosi di redenzione. Redenzione significa acquisto, riacquisto, presa di possesso. Ci sono aspetti della nostra vita (fatti accaduti, tratti della personalità, desideri, paure…) che devono tornare sotto la proprietà di Cristo. Riconoscere concretamente di essere bisognosi di redenzione non è scontato. Diverse tentazioni possono minare questa umiltà, in particolare due: orgoglio e disprezzo di sé.
La prima tentazione è l’orgoglio di chi si crede giusto, di chi non riconosce di dovere cambiare. Gesù ha denunciato con forza, in particolare contro i farisei, la tentazione dell’orgoglio. Ricordiamo quella parabola così efficace, che deve rimanere per noi un richiamo costante.
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,9-14).
Come è triste l’atteggiamento di questo fariseo. Sta in piedi, non si inginocchia. È tutto impegnato a misurarsi e a trovarsi sufficiente. Si avverte il fastidioso piacere che prova nel sentirsi un uomo giusto. L’orgoglio è una possibilità costante per ogni uomo, e attacca proprio quando si compie qualcosa di buono, magari anche di clamoroso. In questo momento dovete vigilare, perché l’essere entrati in seminario e aver ricevuto la stima della gente può addirittura indurvi a pensare di essere grandi uomini!
Abbi pietà di me peccatore. È questo l’atteggiamento più vero da vivere. Il gusto sorprendente della redenzione, di scoprirsi dei perdonati, dei salvati, è precluso a chi presume di essere giusto.
Abbi pietà di me peccatore. È questo l’atteggiamento più vero da vivere. Il gusto sorprendente della redenzione, di scoprirsi dei perdonati, dei salvati, è precluso a chi presume di essere giusto.
Una seconda tentazione è il disprezzo di sé, pensarsi troppo sproporzionati, pensare che il nostro male sia un’obiezione. In fondo, la tentazione è pensarsi incurabili, malati terminali. “È troppo grande il male fatto, è troppo radicato in me, è da troppo tempo che sono così…”. Questa tentazione è spesso accompagnata dalla paura del giudizio degli altri: “Se sapessero chi sono mi lascerebbero solo…”. Anche Pietro ha avvertito la sproporzione tra sé e Cristo il giorno in cui, dopo avere faticato inutilmente tutta la notte, seguendo l’indicazione di Gesù prese una grande quantità di pesci. Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; […] Gesù disse a Simone: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono (Lc 5, 1-11).
Nel cammino verso Dio, ci può essere un senso di sproporzione, di piccolezza. Un senso di inadeguatezza dovuto ai nostri limiti o ai nostri peccati. Dichiararsi peccatori, come fa san Pietro, è uno sguardo vero su di sé. La falsità – la tentazione – sta nel decidere che questa indegnità è un’obiezione alla sequela di Cristo. Cristo non nega l’indegnità di Pietro ma allo stesso tempo lo invita a seguirlo.
L’orgoglio e il disprezzo di sé hanno una radice comune: la misura di sé. Entrambi questi atteggiamenti sono caratteristici di chi è occupato a misurarsi, di chi è ripiegato su di sé, preoccupato della propria grandezza o piccolezza. Si esce da queste tentazioni imparando ad appoggiarsi su Cristo, a misurarsi in base alla sua presenza. È chiesto un cambiamento di preoccupazione: non “quanto sono grande io”, ma “quanto è grande Cristo”.
Lasciando da parte orgoglio e disprezzo di sé, cercando un atteggiamento di umiltà, chiediamoci: che cosa deve essere redento in noi? Cosa deve essere sanato? Offro alcuni spunti.
4. Gli si aprirono gli orecchi: sanare la ragione, una nuova mentalità
Benedetto XVI, nel brano citato, dice che ci sono troppi rumori, frequenze diverse che occupano i nostri orecchi e che ci impediscono di ascoltare la parola di Dio. Sono i pareri della mentalità in voga: senza che ce ne accorgiamo, entrano in noi, per cui ci troviamo a dare un valore assoluto a cose limitate: la riuscita, il riconoscimento, il potere… Per cui, per esempio, ciò che faccio è importante se gli altri lo vedono, se è riconosciuto, se è efficace.
Benedetto XVI parla anche di una mentalità razionalista, che in fondo ci fa guardare a Dio come a qualcosa di poco ragionevole, di “pre-scientifico”. Le questioni relative a Dio, e in generale alla vita spirituale, ci appaiono in fondo un po’ magiche, favolistiche, irrazionali. Quello che deve essere sanato in noi è allora la testa, la mentalità. Abbiamo bisogno di un uso nuovo della ragione. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rm 12,2).
In cosa consiste questo uso nuovo della ragione? Essa deve riaprirsi al mondo invisibile. Non c’è solo quello che vedo e tocco. C’è anche qualcosa oltre la realtà. Una ragione che si apre all’invisibile è una ragione capace di cogliere i segni del Mistero nella realtà, e quindi è l’unica ragione capace di cogliere la realtà nella sua interezza. Perché la realtà non è solo quello che vedo e tocco, parte della realtà è anche chi l’ha voluta e perché l’ha voluta. La guarigione consiste nel tornare ad ascoltare la sua voce nella realtà, cioè a riconoscere Cristo presente. In questi anni, sarà decisivo allora imparare a pregare, vivere un rapporto frequente con i sacramenti, scoprire la compagnia dei santi, cioè di coloro che hanno vissuto un rapporto reale con Dio, con l’invisibile.
Una ragione che si apre all’ascolto della voce di Dio, sempre attraverso la compagnia, acquista nel tempo un nuovo giudizio sulla realtà, che desume i suoi criteri dalla comunione con Dio e non dal mondo. La mentalità che desideriamo rinnovare in noi è una ragione aperta, capace di cogliere il valore vero della realtà, e cioè la realtà così come la vede Dio, come ci è rivelato da Cristo. É quello che dice san Paolo quando constata, scrivendo ai Corinzi, che noi abbiamo il pensiero di Cristo.
È affascinante pensare alla possibilità inestimabile di avere il pensiero di Cristo. La strada per guadagnare questa nuova e sorprendente mentalità è la conoscenza, la frequentazione della persona di Cristo, del suo modo di guardare alla vita e al mondo. È la sua persona che troviamo nella vita della Chiesa, del movimento, della Fraternità. È il suo pensiero che scopriamo nella Scrittura, nella liturgia, nella tradizione della Chiesa. In questi anni, lo studio, la liturgia, la preghiera non hanno altro scopo se non quello di portarvi a una familiarità con la persona di Cristo.
Perché questo avvenga, ci è chiesto però un lavoro sistematico di correzione dei giudizi falsi che abbiamo dentro. Tante cose sono viste e pensate come se Cristo non ci fosse, secondo un pensiero che non è il suo. Pensiamo, per fare alcuni esempi, all’idea di libertà come autonomia e non come dipendenza, all’idea di compimento come autoaffermazione e non come dono, all’idea di sacrificio come obiezione e non come possibilità di amore. Vi invito ad avere il coraggio e la semplicità di mettervi in discussione, di contestare, nel dialogo con noi, tutto ciò che in voi risponde a un pensiero lontano da quello di Cristo.
L’amore di Cristo ci spinge, ci prende, ci urge, ci assedia, ci reclama, ci sequestra! La nostra missione nasce da qui, dalla scoperta di questo amore travolgente che dona alla vita una nuova direzione.
Uno dei frutti più belli di questa guarigione della ragione è la scoperta dell’unità della vita, come ricordava Giussani: «Appartiene di diritto alla compagnia di Cristo nella nostra vita questo aspetto di ricapitolare nella sua persona ogni significato di ogni storia, una dignità culturale unica perciò della sua presenza in ogni vita. […] È come se Cristo dicesse: “Tutto quello che è accaduto è per me, la storia è per me. Io sono il senso della storia”. La sua compagnia e la sua Presenza decidono perciò della percezione che uno ha di sé e della realtà. […] “Ex uno Verbo omnia, et unum locuuntur omnia et hoc est principium quod et loquitur in nobis”. Da una sola Parola tutto, e una sola Parola tutto grida. E questa Parola è il principio che parla dentro di noi».
Anche san Paolo parla della conoscenza di Cristo come dell’unico fattore per cui vale la pena tutto: ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui (Fil 3,7).
La guarigione della nostra ragione è una guarigione della conoscenza, è la scoperta della sublimità della conoscenza di Cristo.
5. Si sciolse il nodo della lingua: sanare il cuore, certi dell’amore
Abbiamo bisogno, poi, di una guarigione del cuore e dell’affetto.
Noi viviamo per amare e per essere amati. Ma troppo spesso questo nostro bisogno è macchiato dal dubbio e dalla paura. Per tante ragioni ci troviamo facilmente addosso la paura di non essere amati, e di non sapere o potere amare. Vi sono ragioni culturali, perché una società che disistima la famiglia, che separa il sesso dall’amore, che non ha pietà della vita debole, insinua uno scetticismo circa la possibilità di amare veramente. Ci sono ragioni morali, perché il nostro male ci fa sentire indegni di essere oggetto di amore e di donare il nostro amore. Anche la nostra storia può generare in noi delle paure, perché certe ferite del passato, se non vengono redente, possono chiuderci all’amore. Ci troviamo addosso così una paura inconsapevole, che si manifesta in tanti modi: ansia da riconoscimento, solitudine, egoismo, possessività, paura di sbagliare o di essere giudicati, ecc. Giussani e Testori, in un dialogo, parlano della perdita del senso della nascita, cioè del sentimento dell’essere voluti. Per usare le parole del vangelo, c’è un nodo in noi che va sciolto, per poter vivere con libertà quella comunione con Dio e con gli uomini per cui siamo fatti. Abbiamo bisogno di essere guariti scoprendo che la nostra vita è voluta, amata, attesa, e che noi siamo capaci di amare.
È questa l’opera redentrice di Cristo, che spacca la nostra chiusura comunicandoci il suo personale amore per noi, donandoci la certezza di essere amati e il coraggio di amare.
Prima di pronunciare la parola effatà, Gesù guarda il cielo e sospira. Guarda al Padre e sospira di compassione per l’uomo. È una commozione che si ritrova anche altrove nel vangelo: davanti ai due cechi di Gerico (cfr. Mt 20,34), davanti alla vedova di Nain (cfr. Lc 7,13), davanti alla folla affamata e smarrita (cfr. Mc 6,34; 8,1), piange davanti a Gerusalemme (cfr. Lc 10,41) e per la morte di Lazzaro (cfr. Gv 11,33-35). Gesù apre la nostra vita a Dio (al Padre a cui guarda) donandoci l’esperienza di un amore impossibile, smisuratamente oltre le aspettative. Ciò che scioglie il nodo del nostro cuore e polverizza le nostre paure è la scoperta di essere amati e voluti da sempre. È la scoperta di essere nel cuore di Cristo. Questa è la rivelazione della croce, di un amore alla mia vita inimmaginabile. La redenzione del nostro cuore coincide con la scoperta personale dell’amore di Cristo, morto in croce per me, amore che mi raggiunge oggi nel dono sempre attuale dell’eucarestia. Non si tratta solo di un sentimento, o di una percezione psicologica, ma di un fatto accaduto per me. Non si tratta di sentirsi amati, ma di sapersi amati. È la scoperta che ha sconvolto e rivoluzionato la vita di san Paolo: Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 2,8). E ancora: Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).
Il sordomuto è stato liberato per amore, perché Cristo si è commosso per lui, e proprio perché liberato ha potuto a sua volta conoscere e amare Cristo.
Questo amore ci raggiunge attraverso la compagnia della Chiesa. I sacramenti, i fratelli, la casa che Dio ci ha dato. Massimo Camisasca ha descritto in questi termini la nostra Fraternità: il luogo dove Cristo si piega sulle mie ferite.
Possiamo ritornare ad amare, senza essere più schiavi delle nostre paure, del nostro male e delle nostre insicurezze, abbracciando il cammino che ci viene offerto in questa casa.
6. Ha fatto bene ogni cosa: la scoperta del Padre
Nel brano di Marco, dopo che Gesù ha compiuto il miracolo, le persone attorno a lui esprimono il loro stupore e la loro gioia. Ha fatto bene ogni cosa, fa udire i sordi e parlare i muti: la seconda parte della frase richiama Isaia, che così descriveva il Messia che sarebbe arrivato. La prima parte invece, Ha fatto bene ogni cosa, richiama la Genesi, quando Dio dichiarò buone le cose che aveva creato. Dopo il miracolo, Gesù è presentato da Marco come il Messia atteso, l’inviato di Dio che svela al mondo il Padre, creatore di tutto.
Arriviamo qui al cuore della guarigione operata da Gesù, al contenuto ultimo di quell’apertura a Lui di cui abbiamo parlato. La redenzione di Cristo spalanca la ragione, riaprendo nell’uomo la capacità di conoscere Dio e di guardare la realtà con i suoi occhi. La redenzione riapre anche il cuore, donando la certezza di un amore alla propria vita, svelato dall’amore di Cristo in croce. C’è una parola che descrive questa vita nuova a cui Cristo ci apre: figliolanza. Cristo apre la nostra vita alla scoperta del Padre, di colui che ha voluto (e cioè amato) tutte le cose, che le ha fatte buone. La parola greca utilizzata da Marco è “kalos”, che vuol dire buono ma anche bello. La realtà è buona perché voluta dal Padre, e quindi è bella perché segno e rivelazione del suo amore. E la realtà sommamente buona e bella è l’uomo. Io sono figlio, cioè voluto, desiderato, fatto bene da un Padre. È a questa scoperta meravigliosa che ci apre Cristo. In fondo, la sua missione nel mondo consiste nello svelare all’uomo il volto del Padre buono. Come dice quel brano così pacificante di Matteo:
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno (Mt 6, 25-34).
Possiamo parafrasare così questo brano: c’è un Padre, siete figli, potete smettere di avere paura.
7. Più essi ne parlavano: l’urgenza della missione
Gesù raccomanda al guarito e ai suoi amici di non dire niente a nessuno. Aveva le sue ragioni, non voleva essere scambiato per un taumaturgo. Loro però non resistono, non riescono a tacere quello che hanno visto, e subito iniziano a dirlo a tutti. La scoperta dell’amore di Cristo, la bellezza di conoscerlo, è il motore della nostra missione.
Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro (2Cor 5,14-15).
L’amore di Cristo ci spinge. Il verbo greco, synecheìn, ha diversi significati. Si potrebbe tradurre: l’amore di Cristo ci spinge, ci prende, ci urge, ci assedia, ci reclama, ci sequestra! La nostra missione nasce da qui, dalla scoperta di questo amore travolgente che dona alla vita una nuova direzione. La creatura nuova, infatti, la creatura guarita da Cristo, è un uomo che non vive più per se stesso ma per Cristo. La missione non nasce dalla nostra grandezza o dalla nostra capacità, nasce dalla potenza dell’amore di Cristo che ci raggiunge in una compagnia umana, e ci dona la certezza e il coraggio che nascono dalla figliolanza, dalla scoperta del Padre che porta nelle sue mani e nel suo cuore la nostra vita.