«Come hai fatto a capire che saresti diventato prete? Ti è apparsa la Madonna?» mi domandano i ragazzi del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. «Magari!» rispondo secco di fronte alle loro facce deluse.
Sono nato ad Alverca, una piccola cittadina alle porte di Lisbona dove la mia storia si è legata a quella della Fraternità san Carlo. Per tante ragioni, non ho mai frequentato il catechismo né la parrocchia. Fin da piccolo, però, trascorrendo le vacanze nel paese dei miei genitori, aiutavo mia nonna per la preparazione della Settimana Santa, con le sue varie devozioni popolari.
Un giorno, nei primi anni della scuola superiore, un’amica mi rivolse un invito inaspettato: «Devi conoscere i nuovi preti italiani che sono arrivati in parrocchia. Sono diversi!». Non ero particolarmente interessato ma in parrocchia ci capitai comunque, quasi “per caso”. Allora conobbi don Francesco. Una simpatia immediata e la mia proposta di aiutarlo con il catechismo hanno dato inizio ad un’amicizia sempre più grande, che si è allargata fino ad abbracciare tutti quelli che negli undici anni successivi hanno partecipato alla missione portoghese, da Zé Maria a Silvano e Raffaele, da Nicolò a Luis Miguel.
Con la laurea in Giurisprudenza, ho cominciato il tirocinio forense, senza smettere di collaborare alla chiesa dei Pastorelli di Fatima. Anzi, l’amicizia con quei preti italiani, così diversi ma al contempo così felici, divenne sempre più stringente, introducendomi al movimento di Comunione e liberazione.
Tutto, pian piano, diede più gusto alla mia vita. E fare l’avvocato mi piaceva molto, per quanto fosse dura. Ricordo in particolare quella sera in cui chiusi, dopo un’intera giornata di negoziazioni, un contratto alle 23.59, con tanto di spumante. Il mattino seguente ero libero quindi di andare in vacanza con i ragazzi delle scuole medie che da alcuni anni seguivo nel loro cammino. Sono stati proprio quei giorni a segnare il punto di svolta. Guardando alla bellezza vissuta insieme nei giochi e nelle gite in montagna, e stampata sui nostri volti di ritorno a casa, ho raccolto nel profondo del mio cuore il desiderio di essere sempre più strumento di quell’avvenimento. Nonché di portare il grido di pienezza di quei ragazzi fino davanti a Dio.
Alcuni anni dopo, a una ragazzina che era tra loro, è stato diagnosticato un tumore. Quando sono andato a trovarla in ospedale, mi ha detto: «Voglio esserci alla tua ordinazione». «Vânia» le ho risposto, «so che stai soffrendo tanto, offri il tuo dolore per le nostre vocazioni». È andata in Paradiso nel giugno 2013, il mattino stesso in cui a Roma si svolgevano le ordinazioni della Fraternità san Carlo. Oggi faccio memoria del suo sorriso, che da lassù intercede perché si compia la mia vocazione.
Passati sette anni, la promessa iniziale comincia ad avverarsi, attraverso la concretezza dei volti fraterni che Dio mi ha donato chiamandomi nella compagnia della Fraternità. Qui conosco il mio vero volto. Quando varco le porte del carcere minorile, infatti, il mio cuore si accende di gratitudine per il dono di una casa che ogni giorno mi accoglie e mi consola. Perciò, di questa misericordia, posso rendere partecipi i ragazzi che incontro. Uno di loro, D., mi ha scritto: «Pretaccio, ti ricordi come t’insultavo quando ti vedevo? Pensavo che fossi come tanti altri, falso e doppia-faccia. Però devo dire che mi sono ricreduto. Non è da tutti essere sempre pronti a dare una mano dove è necessario, non è da tutti, anzi quasi da nessuno. E va bene… le cose cambiano, siamo nel 2016 e ho addirittura amici preti, pensa un po’! A proposito, a volte mi viene l’idea di andare insieme a te e a mio fratello a fare una rapina, ma pazienza, mi passerà…».
“Rubare” le anime e portarle a Dio, mi piace!
Nella foto, David Crespo con uno dei detenuti dell’Istituto Penitenziario Minorile di Casal del Marmo di Roma.