Qui in Cile l’anno sociale finisce con il Natale: le scuole hanno già chiuso per le vacanze estive e, tra gennaio e febbraio, anche i lavoratori andranno in ferie. Nella nostra parrocchia la maggior parte delle attività è conclusa. A dicembre abbiamo celebrato le prime comunioni in tutte le sei cappelle e abbiamo poi ricevuto la visita del vescovo per il conferimento della cresima a sessantaquattro persone tra ragazzi e adulti. Anche nell’istituto per ragazzi con sindrome di down, dove svolgo l’incarico di cappellano, l’anno sociale è terminato con la celebrazione delle prime comunioni a dodici ragazzini, preparati assieme ai genitori durante tutto quest’anno.
Negli ultimi mesi spesso ha prevalso la preoccupazione per i lavori di ristrutturazione della nostra nuova casa e della parrocchia che ci è affidata; oppure il pensiero per i problemi che toccano la gran parte della nostra gente, come i drammi personali, i problemi dell’indigenza, dell’alcol e della droga, le divisioni nelle famiglie. In tutto questo posso però dire di aver fatto qualcosa di buono per avvicinare i cuori a Cristo, anche se rimane come una goccia nel mare.
Una domenica una persona mi ha scritto: «È come se la messa fosse fatta per me: proprio quello che avevo bisogno di sentire. Non ti ho aspettato per salutarti perché sono molto sensibile e piango con facilità… buona settimana!». Oppure: «Padre, continuo ad andare a messa perché c’è lei; altrimenti avrei lasciato perdere come hanno fatto alcuni miei amici». Questi messaggi, insieme ad altri che ho ricevuto, sintetizzano la gratitudine di molte persone con le quali è nata un’amicizia o che semplicemente mi hanno cercato per un aiuto o un consiglio. Anche il vescovo, quando è venuto a trovarci, si è stupito della familiarità con cui la gente ci salutava lungo la strada che separa la casa dalla chiesa.
Stare in missione ha moltiplicato in me i momenti in cui viene a galla il sentimento di solitudine e di sproporzione tra il bene che possiamo fare e la pienezza che il cuore desidera. Sono momenti in cui mi sembra di essere come in carcere: niente è sufficiente di fronte al bisogno di una soddisfazione totale. In tutto questo però, l’appartenenza al movimento e alla Fraternità, il lavoro sui testi che ci vengono suggeriti e la presenza dei miei confratelli mi donano il bene fondamentale: l’abbraccio integrale della mia persona, grazie al quale l’insoddisfazione si può trasformare in donazione di sé. Sto imparando a leggere la solitudine e l’aridità non come inciampi nel cammino, ma come il riflesso di un amore geloso da parte del Padre: egli non vuole che mi conformi o che mi trovi comodo con niente al di fuori di Lui e di ciò che viene da Lui.
Da questo giudizio rinasce il desiderio di accettare, conoscere e amare le persone e le realtà che Dio mi mette davanti. In questi mesi, per esempio, ci stiamo impegnando nella ricerca di strade attraverso cui il mistero di Dio possa incarnarsi nella vita di questa gente. Penso alla proposta della scuola di comunità, di un coro parrocchiale, della caritativa e di un incontro settimanale per i ragazzi. Io e don Alessandro abbiamo deciso di coinvolgerci direttamente con quattro gruppi di preparazione alla cresima. Se Dio vuole, cominceremo anche la catechesi per la prima comunione nella scuola statale in cui è nato un rapporto d’amicizia con la direttrice: ci sono già una cinquantina di bambini disposti a cominciare assieme ai loro genitori.
L’immagine più bella che porto nel cuore dal mese dell’Avvento mi è stata donata durante le prime comunioni dei bambini con sindrome di down. Eravamo nella chiesa cattedrale, dove il vescovo della nostra diocesi celebra la messa tutte le domeniche. In mezzo al bailamme e alla riduzione a spettacolo della liturgia – la frenesia degli invitati di scattare la foto del secolo, genitori e figli con l’affanno di apparire belli e sorridenti – Joao, un bambino down che aveva appena ricevuto Battesimo ed Eucarestia, stava seduto solo sulla panca della chiesa fissando il grande crocifisso che campeggia nel presbiterio. Non gli interessavano i baci, gli abbracci e le foto; era la presenza di Cristo che dominava il suo sguardo. Nella sua condizione di ritardo mentale e fisico, abbandonato dai suoi genitori naturali, in mezzo a tutta la distrazione, Joao ha colto l’unica cosa reale per cui eravamo lì: la presenza di Cristo. Per accorgersene, occorre il miracolo di un cuore povero e semplice come quello di Joao.
Il dono totale
Dal Cile il racconto missionario di don Stefano Don: è in un’amicizia che cresce la familiarità con Cristo.