Una certa mentalità mondana, che si insinua anche nella Chiesa, esige che il Santo sia colui che, seppur nel nascondimento, realizza grandi opere. Si tollera una santità nascosta, sconosciuta, purché abbia poi un certo effetto nel tempo. La storia di Benoît Joseph Labre sembra fatta apposta per contraddire queste attese borghesi.
Durante il regno di Luigi XV, le bien aimé, il 26 marzo 1748, nel villaggio di Amettes, presso Boulogne, nasceva Benoît Joseph Labre, primogenito dei quindici figli di Jean Baptiste e Anne Barbe Grandsire.
Naturalmente nessuno degli artefici della grande storia se ne accorse, tanto più in quell’anno di grazia che, con la pace di Aquisgrana, vedeva affacciarsi quale nuovo attore della politica europea il regno di Prussia di Federico II. Che cosa poteva significare per i philosophes dell’età dei Lumi, adulati nei salotti aristocratici parigini, la nascita di un “Benoît Joseph” qualunque?
Nulla. E nulla significherebbe la vita di Labre, se continuassimo a guardarla da intelligenti illuministi, da pratici positivisti o da occidentali annoiati e delusi. A prima vista sembra il tipico curriculum di un disadattato. A dire il vero, da bambino Benoît Joseph aveva promesso bene: dimostrava una serietà superiore alla sua età e lo zio materno e padrino, suo omonimo, che era parroco di Erin, gli aveva insegnato i primi elementi di latino. A sedici anni manifesta il desiderio di diventare monaco trappista. La famiglia si oppone, ma il ragazzo si mostra risoluto e nel 1766 chiede di entrare alla Certosa di Sainte Aldegonde. I monaci però non lo ammettono al noviziato.
Questo rifiuto apre in Benoît Joseph un periodo di incertezza, angoscia e tentazioni. Chiede di essere accettato in altri monasteri, in alcuni inizia anche il noviziato, ma da nessuno viene ritenuto adatto. Ce n’era abbastanza per mettersi il cuore in pace. Ma, a quanto pare, Dio non disdegna i cuori inquieti. Benoît Joseph si incammina allora per Roma, nell’intento di trovarvi un monastero che l’accolga. Alla fine di agosto del 1770, da Chieri, in Piemonte, scrive la sua ultima lettera ai familiari.
Il lungo viaggio attraverso l’Italia gli rivelò quello che Dio voleva veramente da lui. Benoît Joseph sarebbe restato sempre sulla strada, sarebbe diventato il vagabondo di Dio.
Come definizione è affascinante, ha un’aura romantica: ma nel cristianesimo le parole non fanno mai da sfondo a nessuna scena, sono sempre pietre aguzze e di inciampo. Benoît Joseph, dopo aver dato prova di una certa testardaggine, ora appariva anche impresentabile. Abbandonava il suo corpo alle intemperie, alla sporcizia degli abiti a brandelli, agli insetti e alle piaghe. In compenso, pregava sempre. Sue uniche proprietà, tre libri: l’Imitazione di Cristo, il Nuovo Testamento e il Breviario che recitava quotidianamente. Pellegrinò verso diversi santuari: Loreto, Assisi, Bari, Napoli, Fabriano. Varcò le Alpi e visitò Einsiedeln, Compostela, Paray-Le-Monial. In Francia era guardato con diffidenza, in Europa centrale era considerato con una specie di timore religioso, in Italia era il santo francese.
Gli ultimi anni della sua vita li passò a Roma, dormendo in un angolo delle rovine del Colosseo. Trovato svenuto sulla via che conduceva alla Madonna dei Monti, fu ospitato nel retrobottega di una macelleria, e qui morì il 16 aprile 1783. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria dei Monti, in via dei Serpenti. L’8 dicembre 1881, Benoît Joseph Labre fu canonizzato da papa Leone XIII.
Il clochard di Dio
Don Giovanni Brambilla racconta la vita di Benoît Labre. Il santo francese rifiutato da tutti i monasteri decide di dedicare ugualmente la propria vita a Dio, facendosi vagabondo.