Con il passare del tempo e il moltiplicarsi degli incontri mi sto rendendo conto che tutta l’esistenza di un uomo è legata alla parola educazione.
A ben vedere non c’è gesto umano che, di fatto, non sia un gesto educativo. Insegnare una materia, apparecchiare la tavola, stare su un autobus… tutto quello che facciamo è, oggettivamente e inevitabilmente, azione educativa. Ogni gesto è comunicazione di sé, è occasione per la scoperta di quale ideale muove la mia vita.
L’emergenza educativa di cui oggi si parla è legata ad una concezione dell’esistenza che è parziale. Essa si caratterizza per l’assenza di un significato profondo: ciò che conta è ciò che appare o quello che ciascuno può decidere per sé. Ma in questo contesto di precarietà non è possibile una maturazione integrale, il cammino di una proposta che investa tutta la vita.
L’educazione è qualcosa che riguarda ciascuno di noi e non si conclude mai. La cosa più importante, diventando adulti, è proprio accorgersi della necessità di rivivere continuamente l’educazione di sé. Certamente i giovani sono i destinatari primi di un’opera educativa: essi sono all’inizio dell’avventura umana. Ma anch’io sono destinatario dell’opera educativa che compio. Non ci sono rigide distinzioni tra destinatari e protagonisti dell’opera educativa. Educare mi educa. Mi costringe a capire il perché delle cose, l’essenziale e il secondario, a imparare ad amare le persone che ho davanti. Per questo gli “specialisti” dell’educazione possono essere pericolosi: l’educazione non è una tecnica con manuali di istruzione, ma un cammino che si compie assieme all’educando.
Fare, stare assieme, condividere. Questa è la strada principale che permette di educare. E, assieme a questa, la pazienza della libertà.
Dio è un grande educatore. Egli ci chiama a contribuire all’opera della creazione attraverso il nostro lavoro quotidiano. Provoca e sollecita la nostra libertà, facendoci vedere il bene, il giusto, il vero. Ci dà la continua sollecitazione a perseguire ciò per cui siamo fatti e che non sappiamo compiere da soli.
Quando guardo i bambini penso a questo. Sono fatti per camminare. Ma, senza la presenza di un padre e di una madre accanto a loro, si bloccherebbero davanti alle loro cadute e ai loro capricci.
Ciò che educa è la vita della comunità. Nelle recenti vacanze per le famiglie sono rimasto soprattutto colpito da questo: vedere persone di ogni età e condizione che vivevano assieme giornate semplici ed ordinarie eppure piene di eccezionalità, di gusto nel conoscere e nel rischiare, di passione nel comunicarsi e nello svelarsi.
Non è possibile non desiderare di comunicare al giovane e al meno giovane il perché delle cose: delle gioie e dei dolori, del male e del dovere. E infine l’educazione non sarebbe tale se non arrivasse alla fede, alla scoperta di Gesù, cui affezionarsi come alla presenza più appassionante, perché tutto riempie di significato.
Gesù ha creato un luogo attorno a lui, che non finiva in lui. Rinviava sempre al rapporto costitutivo con il Padre. Un luogo libero, in cui chiunque è accolto e amato per il semplice fatto che c’è, non perché è bravo. Un luogo in cui i discepoli dicono liberamente di sé, delle loro ambizioni, passioni, gelosie… e dal cui interno Gesù introduce un insegnamento nuovo, pieno di autorevolezza.
Il Centro Giovanile, nato circa tredici anni fa a Roma, e cresciuto grazie al contributo di laici, sacerdoti e seminaristi della Fraternità, vuole essere quel luogo libero, duemila anni dopo. È aperto ogni giorno, che ci sia una persona o che ce ne siano trenta. Lì i ragazzi possono imparare a vivere insieme, a rischiare quello che desiderano, a coinvolgersi in un rapporto con chi è più grande.
Per gli adulti che vi partecipano, la vita del Centro è la possibilità di reimparare a guardare alle loro passioni e ai loro interessi come a qualcosa di bello perché comunicabile. Se stanno con i ragazzi non è per organizzargli la giornata, ma per accompagnarli nella vita, perché la possano gustare in tutte le sue dimensioni. Ma non gli sarebbero veramente amici se la loro compagnia non arrivasse a coinvolgerli fino allo studio.
La grande sfida per me è mostrare ai ragazzi che l’esperienza dello studio non è riducibile alla scuola. Ci sono cose che dobbiamo imparare, anche se a scuola non saranno mai richieste o affrontate. Alcune visite per Roma, la proposta di alcuni libri o autori, la visione di certi film è un’attività di studio che probabilmente non ha una ricaduta immediata sull’interrogazione. Eppure è solo questo che permette di iniziare a studiare le materie scolastiche, o di continuare a farlo quando si è perso il fascino per la scuola.
Dopo quasi quindici anni di vita del Centro Giovanile abbiamo incontrato moltissime persone e organizzato tanti eventi. Ai miei collaboratori di oggi amo però ripetere che «si deve fare quello che si può». Facciamo nuove proposte solo se ne abbiamo la forza, se quello che facciamo conserva la gratuità originaria. Il nostro lavoro deve aiutarci ad entrare di più nell’opera di Dio, a collaborare con lui. È facile cadere nell’idolatria del contemplare l’opera delle nostre mani che, come gli idoli del salmo, «hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano e dalla gola non emettono suoni» (Sal 114). Se non viviamo con gratuità il rapporto con le nostre opere, esse finiscono per essere mute: non comunicano più nulla né a noi né a coloro ai quali esse sono destinate. Se non usciamo continuamente da noi stessi, la nostra attività è destinata a morire. Ogni persona nuova che incontriamo è l’occasione che il Signore ci offre per riscoprire chi siamo e ritornare a ciò che ci costituisce.
Educare ci educa
La sfida educativa del nostro tempo è raccolta dal «Centro Giovanile» di Roma. Con un modello cui guardare: Gesù e la compagnia di amici riuniti intorno a sé.