Quando ero bambino andavo al porto con mio padre in bicicletta, fino al limitare del molo. Davanti a noi si apriva quella distesa azzurra nella quale il sole si rifletteva interamente e le navi andavano e venivano, lasciando dietro di loro la scia biancastra. Alle nostre spalle, il faro. La sua imponenza dominava e mi affascinava. Era lui che con la sua luce riaccompagnava a casa i marinai usciti nella notte per la pesca. Era lui che li avvisava del sopraggiungere della nebbia o delle intemperie.
Quando penso alla storia della mia vocazione penso alla storia di un ritorno a casa. Proprio come quello dei marinai. Sono cresciuto in un piccolo paese di mare della riviera romagnola, in una famiglia semplice: mio padre fa l’elettrauto, mia madre è casalinga. Ho un fratello minore che sta terminando la scuola di ragioneria. In casa ho sempre respirato un clima di serietà verso la vita, fatta di lavoro assiduo e quotidiano.
In parrocchia, all’età di nove anni, ho incontrato un prete. Don Lino era giovane, bassetto, un po’ tarchiatello, con due gambe corte che muoveva però molto in fretta e, dietro a lenti grandi come fanali, si intravedevano due occhi azzurri. Quegli occhi piccoli ma intensi erano vivi e sprigionavano una gioia profonda. Era forse la prima volta che mi trovavo davanti a una persona veramente grata della propria vita. Ben presto desiderai anch’io essere felice come lui. Quello fu il primo momento in cui percepii il fascino di una vita sacerdotale pienamente donata a Dio.
Una compagnia vera
Alla fine delle scuole medie iniziò in parrocchia un piccolo coro a cui decisi di prendere parte su invito di una catechista. Nel tempo le parole di quei canti mi segnarono profondamente. Lei era di Comunione e Liberazione, ma io non lo sapevo. Con un gruppetto di amici iniziammo a frequentarla, e lei ci raccontava di quelle persone a cui era legata. Non capivo molto, ma avevo chiaro che erano insieme per Gesù. Da quei racconti crebbe in me il desiderio di una vera amicizia e di una compagnia. La mia allora era quella del “sabato sera”, quella degli amici della squadra di calcio, che si incontrava nella piazza del paese, ognuno accavallato al proprio scooter nell’attesa che accadesse qualcosa. Me ne tornavo a casa amareggiato e sempre un po’ vuoto.
A volte capitava di leggere alcune frasi tratte dai libri di un certo Giussani che, di nuovo, non sapevo chi fosse. Percepivo che in quelle parole era contenuto qualcosa di grande e affascinante. Quando scoprii che Giussani era un prete mi dissi: «Questa è la strada che devo seguire, è questo ciò che desidero». E da quel giorno mi immersi nella lettura dei suoi testi. Avvenne una vera liberazione: fu la scoperta che il cristianesimo non era uno sforzo personale per essere all’altezza di Cristo, ma la sorpresa della sua presenza viva nel volto degli amici che chiedeva unicamente di potermi amare. Negli stessi giorni scoprii che anche nella libreria di don Lino c’erano libri di Giussani. Anche lui era del movimento.
L’approdo a Roma
Poi è arrivata la Fraternità san Carlo. Era il 2004, quarto anno di liceo scientifico. L’idea del sacerdozio mi era rimasta addosso, anche dopo essermi innamorato. Sfogliando le pagine di una rivista mi imbattei in una frase nella quale si diceva che nella Fraternità entrano ragazzi che, incontrando il movimento, hanno maturato la loro vocazione al sacerdozio e desiderano essere educati secondo il carisma di don Giussani e portarlo a tutti gli uomini del mondo. «Voglio questo per me», mi dissi. Compresi che non c’era più tempo da perdere: ne parlai con don Lino e insieme andammo dal vescovo di Pesaro.
Così approdai a Roma, come seminarista diocesano “ospitato” dalla Fraternità per il tempo necessario alla formazione, e destinato a far ritorno in diocesi. Ma così non avvenne. «Qual è la casa che tu, Signore, hai preparato da sempre per me?». Questa domanda mi accompagnò per diversi mesi. Mi colpì la letizia sul volto dei preti della Fraternità, la gioia del loro stare assieme e la disponibilità nel consegnare le loro vite nelle mani di Dio. Erano lieti perché non erano soli. Vedevo possibile, anche per me, vivere la vocazione al sacerdozio in un’amicizia, radicata nel silenzio e nella preghiera.
Questo mi portò alla decisione di scrivere a don Massimo e richiedere di entrare nella Fraternità san Carlo. La richiesta venne accettata.
Ora mi sento anche io un marinaio che ha preso il largo per uscire e andare a pesca. Anche quando giungono nebbie e turbolenze sono certo che il faro è sempre lì, imponente, sul molo ad aspettarmi perché possa far continuamente ritorno alla casa di Dio.
(Foto Servizio Fotografico dell’Osservatore Romano).