Cari amici,
approfitto di un paio di giorni di vacanza per scrivervi. A scuola, tanti piccoli passi avanti. A dicembre sono venuti a casa degli studenti a vedere una partita, uno è rimasto anche a cena con noi. È un po’ ceco, un po’ serbo, un po’ napoletano, simpaticissimo e molto intelligente: si chiama Goran. Il padre italiano insegna Antropologia qui in università, è un esperto di vampiri (!).
Circa dieci giorni incontro Goran in corridoio. Mi dice che da un mese sta male, non ha voglia di fare nulla, ha sempre in testa una domanda: che senso ha tutto? Perché studiare, lavorare, vivere? La sua migliore amica gli ha consigliato di andare da uno psicologo ma lui non si sente malato. Io gli rispondo di essere d’accordo con lui: siamo tutti malati ma questa malattia non ha bisogno di guarigione. Ce l’ho anch’io, come l’avevano Socrate, Platone, Shakespeare, Mozart, Havel. Piuttosto, è malata una società in cui le domande che dovrebbero risultare normali sono viste con diffidenza o avversione.
Un paio di giorni dopo l’ho invitato a prendere un caffè, non tanto per rispondere ai suoi quesiti cui ho aggiunto i miei, ma soprattutto per condividerli. Abbiamo passato un paio d’ore a parlare della vita: mi ha detto che le mie parole lo hanno letteralmente liberato, che ha vissuto molto meglio dopo avere capito di non essere strano né solo. Però sente tutto il peso di queste domande, perché è molto più comodo vivere lasciandosi trasportare dal sistema, dalla mentalità dominante. E ha aggiunto che spesso lui si rende conto di portare una maschera, la stessa di tutti. Alla sua domanda, se sia possibile vivere senza maschere, ho risposto con un’altra domanda, chiedendo se avesse mai fatto esperienza di non avere bisogno di una maschera. Ci ha pensato un attimo: «Per esempio, adesso» mi ha detto. Infine, mi ha chiesto come posso vivere senza donne. Ho ribaltato la sua domanda: «Ti sembro una persona libera e felice oppure no?».
È stato un dialogo fitto, fino all’ultima battuta. Eravamo già saliti sul tram: «Ma lei, prof, perché dà il suo tempo per me?». «Secondo te, perché insegno a scuola?». La cosa non è finita qui. Il lunedì successivo, a scuola, mi ha chiesto se per lui, non credente, sarebbe stato possibile partecipare alla messa. Oggi è venuta la sua migliore amica, quella dello psicologo. Mi ha detto che lei e Goran avevano parlato a lungo, un dialogo bellissimo. Poi è venuto un altro suo amico: «Avrebbe un po’ di tempo anche per me?». È proprio vero che incontro e missione coincidono. Goran non sa ancora che cosa ha incontrato, ma già lo comunica agli altri. E io imparo da lui quello che ha stupito me quando ho incontrato Cristo. Entrare in una classe dove c’è una corrispondenza umana così grande è più facile, si crea un rapporto con tutti. Uno studente ha fatto leggere a sua madre la lettera che avevo scritto per Natale alla classe, e lei mi ha mandato un biglietto per ringraziarmi. Poi, la settimana scorsa, mi ha contattato un’amica di questa signora, dicendo di non essere credente, ma di voler venire a messa per conoscermi.
In questi giorni penso spesso che per tre anni ho raccolto molto poco, però è stato un periodo eccezionale per la mia vita: mi ha fatto maturare e affezionare a Cristo, mi ha reso capace di gratuità. Adesso, all’improvviso, vedo tanti piccoli miracoli cui non mi sento totalmente pronto: università e scuola assorbono parecchie energie. Spesso mi ritrovo poco lucido in classe, quando il giorno prima ho studiato fino a mezzanotte. Mi piacerebbe fare tante cose: un corso di Religione a scuola, le visite in ospedale, una cura e un’attenzione maggiori alla chiesa che mi è stata affidata. Ma vedo che un fiume sotterraneo di grazia passa ugualmente. Neanche l’opacità della nostra stanchezza, del nostro egoismo, della nostra piccolezza possono impedire il fulgore della vita che ci ha presi. Un abbraccio,
Marco
Marco Basile insegna matematica a Praga ed è Rettore della chiesa dell’Addolorata. Nella foto, dirige il canto nella via crucis con alcuni parrocchiani.