In occasione dei suoi 80 anni, un’intervista a don Mario Guidi, uno dei primi sacerdoti della Fraternità san Carlo.

Non è uno che segua la corrente, don Mario Guidi, missionario e parroco a Gabicce Mare. Al contrario: quando andavano di moda i preti operai, per dire, lui era un operaio che risparmiava per diventare prete. Uno spirito libero. Ma cominciamo dall’inizio. C’è una bella ragione per l’intervista, un compleanno speciale, gli 80 anni, che cade a giugno, e una bellissima storia da raccontare.
Quando è arrivato a Gabicce con una nomina a parroco per dieci anni, dopo avere girato in lungo e in largo l’Italia, ne aveva 73. “Ho chiesto al vescovo se sapeva fare i conti. 73 più dieci fa 83: è un bel problema! Oh, io poi, fino a quando posso vado avanti”.
È un lombardo fatto e finito, don Mario: Milano nel cuore e un amore sconsiderato per il rito ambrosiano. “Finita la terza media, in una settimana ero entrato in fabbrica. Ancora adesso mi stupisco. Venne da me un responsabile della Montecatini. «Vuoi lavorare da noi?» mi disse. «Vieni a fare la domanda». Il martedì portai la richiesta, feci le visite mediche di rito e il lunedì dopo lavoravo già. Era il 20 febbraio, il 1° marzo avevo un contratto definitivo”. Altri tempi. Mario lavora a Castellanza, provincia di Varese, una manciata di km dal posto dove è nato, Busto Arsizio. È nel luogo più improbabile del mondo, uno stabilimento dove la Montedison controlla la gomma sintetica che produce, in un tempo difficile come gli anni ’70, che Mario matura la vocazione al sacerdozio.
Il piccolo Mario frequenta la parrocchia fin da quando è bambino. Non ricorda segni particolari di una chiamata: piuttosto, una intuizione, certa e presente negli anni dell’infanzia, che si concretizza poi nell’incontro con Comunione e liberazione. “Il movimento ha fatto esplodere in me questo desiderio, gli ha dato una consistenza. Quello che allora si chiamava Cll, Comunione e liberazione lavoratori, mi ha fatto percepire l’importanza di quel mondo del lavoro in cui ero inserito a livello attivo. Scoprii che c’era una strada che rispondeva maggiormente alle lotte di quegli anni: dare un significato più profondo alle esigenze che quell’ambiente esprimeva, recuperare il vero senso della vita. Però non potevo certo entrare in seminario a spese della mia famiglia. Mio padre era andato in pensione ma se l’era goduta poco perché presto era morto di tumore. Lui lavorava in una fabbrica meccanica a Castellanza: le vernici delle macchine erano piene di porcherie e rovinavano chi le faceva e le respirava. Mia madre aveva la pensione ma doveva ancora mantenere una mia sorella piccola. Così, sono rimasto a lavorare fino a che la mia liquidazione è stata sufficiente a mantenermi nei cinque anni di seminario. Quando sono diventato prete avevo 37 anni”.
Quando annuncia che si fa sacerdote, molti compagni non capiscono. Sanno che è cattolico, l’hanno visto impegnarsi con la San Vincenzo e l’Unitalsi della Montedison. Sono andati insieme a lui a trovare chi è rimasto a casa in malattia, hanno condiviso le sue esperienze. “In fabbrica senti la bellezza di costruire, di produrre, di rapportarti agli altri. Senti la vicenda del lavoro umano che è chiamato a condividere la realtà con la creazione. La cosa più bella della fabbrica è la possibilità di tanti rapporti. Ero nel consiglio di fabbrica, nel sindacato, sono sempre stato legato a quel mondo. Vedi, oggi sembra banale: c’erano i distributori della Coca cola dove davano indietro le 5 lire e lì vicino le cassettine della San Vincenzo. Ogni 15 giorni facevo il giro dei reparti per svuotare le cassettine. Per me il lavoro non è mai stato una realtà che ti schiacciasse e ti facesse sentire schiavo. Sono stato fortunato, ero già un po’ missionario”.
Ma come – reagiscono i compagni -, adesso che c’è da lottare, adesso che possiamo cambiare questa realtà, tu prendi e vai via? Sorride al ricordo. “Risposi così: «Vado via perché capisco che il cambiamento non passa solo dalla lotta per fare sì che il lavoro sia più umano, ma parte dalla riscoperta di un’esigenza più profonda del cuore, per cui sto davanti alle cose in modo nuovo». Hanno capito? Non lo so. Ma era per quello che andavo a fare il prete”. E oggi, a distanza di quasi 50 anni, don Mario ricorda benissimo quella messa celebrata in fabbrica, una delle prime, la più bella in assoluto. “Sono stato ordinato in dicembre, il mese in cui a Milano si benedicono le case e le fabbriche. Quel giorno, girai tutto lo stabilimento e la sera conclusi la visita nell’Aula Magna con la messa. Fu davvero una giornata stupenda. Quel luogo, che mi aveva visto vivere l’esperienza del lavoro, ora mi vedeva ancora lì, prete, a portare una benedizione e a celebrare l’eucaristia”. Era il 2 dicembre 1978.
Ne aveva già fatta di strada, don Mario: “Quando sono entrato alla Montedison, ho studiato di sera e ho fatto addirittura un anno di università alla Cattolica, Economia e Commercio. Allora si facevano 48 ore alla settimana di lavoro. Finivi alle cinque e mezzo, dovevi correre a Milano all’università, arrivavi a casa che era quasi mezzanotte, sabato compreso. Per qualche anno ho lavorato nella sede centrale, in amministrazione, ma poi ho chiesto di ritornare in fabbrica. Intanto ero diventato ragioniere ed era maturata la storia di diventare prete”. La presenza del movimento lo accompagna passo passo. “C’era questo Silvano Bonfanti che si era coinvolto totalmente con l’esperienza di Comunione e liberazione. Poi, tre o quattro preti nelle parrocchie di Busto, Castellanza, Legnano. Iniziano gli incontri di piazzale Corvetto, dove abitava don Giussani, per verificare la mia vocazione alla verginità. Frequentavo i ritiri che si facevano a Pianazze. I primi due anni sono stato a Saronno, gli altri tre li ho fatti a Bergamo, nel famoso seminario del Paradiso, dove c’erano già tutti quelli che poi, con Camisasca, saranno i fondatori della Fraternità san Carlo. Io venni subito dopo”. Qui Mario trova degli amici tra i sette, otto seminaristi del movimento. “C’era Malberti, con cui eravamo più in sintonia, e altri che però erano sempre in giro, chierici vaganti. Ho fatto un anno a dormire con Maffucci. Ma c’erano anche Spinelli, Eugenio Nembrini, che non ha mai fatto parte della Fraternità. Una delle mie prime messe l’ho detta a casa sua, una occasione in cui incontrare le esperienze significative che c’erano a Bergamo. Ero il più vecchio di tutti però ero tranquillo”.
Ma la teologia? “I primi sei mesi sono stati un disastro! Avevo 33 anni e facevo il biennio con i ragazzini di 19. Ero entrato in un mondo totalmente nuovo. Poi ho ingranato”. Altri tre anni per diventare prete. Diacono a Cologno Monzese, cinque anni a Zingonia, cappellano, el curà. Quando il Paradiso viene chiuso, Camisasca gli propone di iniziare una nuova fraternità missionaria. “Ricordo quella sera, eravamo usciti a Bergamo a mangiare una pizza. Ho detto subito sì, pur capendo la mia distanza da quella che avrebbe potuto essere la chiamata della Fraternità. Lui mi rassicurò: «Stai tranquillo, non ci sono problemi». Era l’occasione di avere una realtà chiara a cui partecipare, da cui lasciarsi coinvolgere per un aiuto grande. Risposi: «Come si dice a Milano, io ho sempre fatto il prete badilante, non il prete intellettuale. Ma se vi va bene così, ci sono»”. Una volta ordinato, altri 7 anni a Cologno Monzese e 12 a Ravenna. E poi, gli altri “pellegrinaggi”, come li chiama lui: Punta Ala, Grosseto, Vimodrone, i 15 anni più belli. Don Mario ne ha 40 e anche la parrocchia è giovane: “Tantissimi matrimoni, 70, 80 battesimi l’anno, i ragazzi e le giovani coppie. Il clou era l’oratorio estivo: due mesi, giugno e luglio, con 200 bambini. Dalla mattina alla sera a giocare, cantare e ballare con i ragazzi. Il lavoro più bello dell’estate, anche se arrivavi alla fine distrutto”.
L’idea del prete badilante è bella e gli si addice. Lui ride della mia curiosità. È anche l’occasione per chiarire che cosa ci fa un prete missionario a Gabicce Mare, a parte frequentatissime messe sulla spiaggia, all’alba, per cui il Nostro è ormai diventato celebre da quelle parti. “Mi avessero mandato in America, ci sarei andato. L’unico problema erano le lingue. Come prete badilante, io sapevo il dialetto del mio paese e un pochettino di italiano”. Secondo don Mario, il badilante inteso come prete “è quello che sta in mezzo alla gente e lavora con le persone, terra terra. Non si fa grandi viaggi, si accontenta di camminare”. Per il resto del tempo, stringe i denti e lavora, come lui ha sempre fatto dall’età di 14 anni. Anche qui a Gabicce Mare: due parrocchie, una delle quali a Ponte Tavollo, 5000 anime che d’estate si moltiplicano.
Che cosa ti aiuta di più, don Mario? “L’incontro settimanale con la Fraternità e i cosiddetti Incontri della casa che facciamo mensilmente. Ti ridanno il fondamento delle cose: un aiuto grande, un richiamo, un’amicizia. Non ho mai vissuto in comunità, ma è stato così per tutti noi che abbiamo iniziato. Non avevamo certo alle spalle quell’aiuto e soprattutto quella chiarezza con cui la Fraternità ha sempre cercato di sottolineare la convivenza. Mi ha aiutato anche l’insegnamento. Per undici anni sono stato con i ragazzi, a dividermi tra scuola e parrocchia. Poi, ho sempre dovuto fare il costruttore. In tutte le parrocchie dove sono stato, la prima cosa che trovavo erano edifici da sistemare. Mi dicevo: chi viene qui deve capire che uno vuole bene al Signore. Le cose devono essere in ordine, pulite, belle. Ho sempre dovuto rifare tutto. È un po’ il male dei preti milanesi che sono legati al mattone. Si dice: ha fatto questo, ha fatto quell’altro… ma alla fine, quante anime ha salvato? Questo lasciamolo al Padreterno”.
Una medaglia da mettere al bavero ce l’hai, don Mario? “Ho lasciato il mio paese e sono andato dove il Signore ha voluto. Fosse stato per me, sarei rimasto a Milano. Però, ancora oggi, se mi dicono «Vai in Sicilia», ci vado. Poi, la missionarietà si gioca dentro a quello che incontri, a cominciare dalla gente del paese. Soprattutto d’estate, consiste nel valorizzare fino in fondo chi arriva: con i sacramenti, la disponibilità alle confessioni, celebrando l’eucarestia, facendo prediche intelligenti senza limitarsi a borbottare su qualche parola, curando la messa perché sia un segno bello. E chi partecipa possa uscire dicendo: «Che bello!». Sono contento, perché ho conosciuto l’Italia e come è fatto questo mondo”.

 

Mario Guidi è parroco di Maria Santissima Immacolata e di Santa Maria Annunziata in Ponte Tavollo, a Gabicce Mare (PU). Nella foto , la santa messa sulla spiaggia con i parrocchiani nella solennità della Assunzione di Maria (2019).

Leggi anche

Tutti gli articoli