Una notte d’inverno del 2004, un’auto si fermò davanti alla nostra parrocchia di san Rafael e abbandonò all’entrata della chiesa un poveraccio mezzo moribondo. Subito chiamai la sagrestana Alba e le chiesi che cosa potessimo fare per quell’uomo. Lei mi rispose che lo avrebbe portato a casa sua. Insieme a suo marito Roberto, lo portò a casa, lo lavò e lo sistemò nel loro letto. Quella notte Alba e Roberto dormirono nel letto della figlia, che in quei giorni era assente.
Alcuni giorni più tardi, padre Paolo, tornato dalla benedizione delle case, mi descrisse la condizione di abbandono e di estrema solitudine in cui vivevano molte persone povere malate e gli anziani della parrocchia. Persone assistite solo dalla carità dei vicini, perché i loro figli erano in Argentina a cercare lavoro. Mi raccontava la sporcizia, la mancanza di assistenza, l’assenza di cibo e amore, la miseria in cui molti sembravano condannati a morire. Ci guardammo in faccia e io domandai a Paolo: «Ma a te, come piacerebbe morire?». Lui mi rispose: «Certamente non abbandonato come un cane!».
Quel breve dialogo ci fece capire che Dio ci stava chiedendo qualcosa. Nacque così, immediatamente, l’idea di costruire una casa per accogliere i poveri malati terminali della parrocchia, per abbracciarli nella loro ultima agonia, per abbracciare la carne di Cristo sofferente e abbandonata.
Cominciammo a costruire la Casa della Divina Provvidenza senza soldi e progetti, con il solo desiderio di rispondere alla provocazione che Dio ci faceva attraverso la realtà. E subito si capì che non si trattava di un’opera mia o di padre Paolo, ma era opera di Dio, perché la gente, vedendo ciò che stavamo facendo, cominciava a commuoversi e a darci dei soldi.
Voglio ricordare due episodi. Alcuni amici vendettero la loro barca e decisero di donarci 30.000 euro senza che gliel’avessimo chiesto. Un altro amico, al quale era morta la mamma, arrivò una sera a casa nostra e ci lasciò una scatola di scarpe contenente 10.000 dollari. Chiese solamente una targhetta in memoria della madre in una delle stanze della clinica. E poi numerose furono le offerte e le iniziative che i paraguaiani organizzarono per aiutarci, commossi da ciò che Dio stava facendo a san Rafael.
Il 1 maggio 2004, festa di san Riccardo Pampuri, arrivò la prima malata. Era una ragazza madre completamente paralizzata, di nome Laura. Ancora oggi lei ha come punto di riferimento per la sua vita la nostra clinica. La accogliemmo insieme alla prima nostra infermiera: la sagrestana Alba. Insieme al marito e ad un’altra signora aveva deciso di lavorare con noi. Solo dopo cominciarono ad arrivare altri infermieri e medici.
Per me e Paolo è sempre stato chiaro che non si trattava di un’opera nostra: ciò che era nato andava ben oltre i nostri progetti e le nostre capacità.
Ma il Signore ha scelto di usare proprio due poveracci per costruire la Casa della Divina Provvidenza. Attraverso di noi Dio voleva creare un luogo dove il suo abbraccio potesse arrivare a tutti. È la sua presenza a san Rafael che ha permesso a più di mille persone di andare in Paradiso, di sposarsi, di ricevere i sacramenti, di vedere il sorriso di Gesù. L’attuale Presidente ha deciso di donare tutto il suo stipendio alla Casa della Divina Provvidenza e di proporre l’esempio di san Rafael a tutta la nazione.
Io e Paolo siamo stati solo due strumenti mossi dallo stupore che nasceva davanti a ciò che Dio faceva accadere, e che ha commosso molti.
Di nostro c’è stato solo il desiderio di comunicare ai più bisognosi l’abbraccio che il Signore, attraverso il Movimento, aveva donato alla nostra vita. E ci siamo sempre aiutati a essere attenti alla volontà del Signore che ci provocava attraverso la realtà, perché per noi la realtà è il Corpo di Cristo. E abbiamo sempre detto di sì, perché si compisse la sua opera.
Nella foto, alcuni membri dello staff medico della Clinica «Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri», ad Asunción (Paraguay), con un piccolo paziente.