Il punto sorgivo della missione di Don Alfonso Poppi a Nairobi è il silenzio del mattino.

Ero da poco entrato nel seminario di Kitgum fondato da padre Tiboni, missionario comboniano da molti anni in Uganda. Ricordo un suo richiamo appena usciti da messa: «Ma tu preghi solo quando metti piede in chiesa?». In quell’istante capii che un grande vuoto occupava ancora la mia vita, il mio pensiero e il mio cuore. Nacque così in me il desiderio che quel vuoto venisse riempito dalla presenza di Dio, e il tempo e le circostanze fossero un’occasione per rendergli continuamente grazie, fin dal primo istante del mattino.
Se guardo agli anni di missione vissuti a Nairobi, vedo che il modo di vivere il silenzio con i miei fratelli è molto cambiato. È stato un cammino graduale ma incisivo. Ci siamo lasciati lentamente modellare dalla proposta dei superiori della Fraternità, finché il silenzio quotidiano è diventato un punto paradigmatico con cui vivere il resto della giornata. Siamo passati da un’ora, la sera dopo la santa messa, al silenzio fatto al mattino, per più di due ore. Istintivamente non mi è mai piaciuta l’espressione “fare silenzio”. Il silenzio è innanzitutto una passività, è aprirsi alla presenza di Dio, accorgersi di Lui, guardando alla realtà e a noi stessi. Lo stupore di fronte alla sua attività inesauribile non è una tecnica da applicare, ma un atteggiamento da imparare guardando altri che lo vivono già.
Il silenzio non ha però nulla di automatico: va sempre cercato e desiderato. Si potrebbe dire che il silenzio è il lavoro più faticoso e più semplice che ci sia: il vero lavoro di chi cerca il volto del Signore. È semplice perché Lui opera e noi contempliamo ciò che ci sta donando; ma è anche faticoso perché, se io non sono presente, è come se non accadesse nulla.
Nel silenzio le mie pretese vengono zittite. Non si tratta della correzione infastidita di chi subisce una regola, ma dello stupore di fronte alla realtà. Mi riferisco al fratello che vive con me, all’aroma del caffè che arriva fino alle camere, alla luce fioca che s’inoltra nel corridoio dalla cappella, segno che un Altro è già lì che mi attende. Certo, la prima frase che nasce sotto le coperte è: «Oh Signore! … Buono!». Quel grido diventa però preghiera: «Ti adoro mio Dio, ti amo con tutto il cuore…».
Appena arrivo in cappella amo recitare alcune preghiere a memoria, prima fra tutte il Padre Nostro, sorgente inesauribile della nostra Vita. Amo recitarle a memoria perché la mia preghiera personale può nascere solo come virgulto innestato sulla sua Parola, oggettiva e non determinata dai miei stati d’animo. La preghiera comune delle Lodi è il momento in cui la Sua Presenza si rende oggettivo: è un gesto di lode comune verso Chi ci ha chiamati insieme. Le parole dei Salmi, ascoltate e recitate, diventano i tasti di un pianoforte che toccano il nostro animo in modo particolare, secondo le diverse storie di ciascuno. Si tratta però di un’unica musica, personale e allo stesso tempo comunionale. Quando torno in camera per continuare il dialogo col Signore, comincio dalla parola di don Giussani, dalla Scuola di Comunità. Rileggere quelle parole è sempre come rinascere. Bastano alcune righe di lettura per dare il giusto peso ai problemi, guardare a me stesso e all’altro con un’affezione nuova.
Non si può comunicare se non quello che si è sperimentato e contemplato. Questo accade non solo perché per comunicare qualcosa, si deve raccontare ciò che è accaduto, ma soprattutto perché è solo un cambiamento della mia persona che può essere percepito veramente dagli altri. È la stessa esperienza di Mosè dopo l’incontro faccia a faccia con il Signore. La testimonianza non è innanzitutto ciò che posso dare io, ma che altri possano riconoscere la sua presenza luminosa nei nostri volti cambiati.
Nel silenzio nasce così una grande gratitudine per questa nostra storia, così innestata in quella della Chiesa e dei suoi papi, soprattutto S. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Ricordo che padre Tiboni insisteva sempre perché l’insegnamento della Chiesa diventasse per noi vita vissuta. Una volta assieme ad altri due preti diocesani, ispirati da Giovanni Paolo II, facemmo un atto di consacrazione della nostra vita a Cristo attraverso Maria. Tiboni ci disse: «Questo vostro gesto è un grande dono per tutti noi, ma voi non ne capite ancora il valore!». Per noi era stato il gesto grato e baldanzoso di un momento di grazia cristallina, ma che rischiava immediatamente di decadere, se non diventava metodo. Ci propose così che questo gesto puntuale diventasse il modo con cui aprirsi a tutta la realtà, certi di una grazia ricevuta anche se assolutamente immeritata. Il bene che il Signore ci avrebbe donato o le sofferenze che avrebbe permesso, sarebbero così diventate sicuramente feconde, perché affidate al grembo di Maria e della Chiesa.

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