Da tre anni alla parrocchia della Navicella di Roma, don Luca Speziale segue i ragazzi delle medie. Dal consiglio di una mamma, può nascere una nuova vita.

«Non è importante quello che riuscirete a fare: è decisivo quello che riuscirete ad essere. Noi vogliamo solo il Regno di Dio: per il Regno di Dio è importante solo quello che si è, non quello che si riesce a fare». Fu questa la prima raccomandazione di don Giussani ai quattro ragazzi di Gioventù Studentesca che partirono nel 1962 per il Brasile. La ritrovo costantemente come punto di lavoro in quella che è la mia missione a Roma. Da dove scaturiscono il mio fare, il mio dire, le mie parole? Ci sono due risposte possibili: o il mio fare scaturisce dalla preoccupazione di rispondere alle domande dei ragazzi, più o meno confuse; oppure è generato da qualcosa di originale, cioè dalla gioia che consiste nell’incontrare Gesù giorno per giorno, attraverso tutte le strade che la Chiesa mi offre.
Da tre anni sono vice-parroco di Santa Maria in Domnica, a Roma. Durante la settimana insegno religione in due scuole della capitale. Nel week-end mi dedico invece ai ragazzi della Barca di Pietro. Questo gruppo è nato da una proposta che facciamo da diversi anni agli studenti delle medie: ci troviamo tutti i sabati a condividere un pomeriggio di canti e giochi, racconti tratti dalla Bibbia e dalle storie dei santi, momenti di preparazione per coloro che desiderano ricevere la cresima e celebrazione della messa. Alcuni di loro vengono anche il giovedì pomeriggio per vivere insieme lo studio, aiutati da adulti che gratuitamente prestano il loro tempo e le loro doti.
La vita di questa compagnia di ragazzi mi rimette spesso in discussione e mi obbliga a ritornare alle ragioni più profonde del mio essere prete missionario. A novembre, ad esempio, la mamma di un ragazzo di prima media mi scrive una mail: «Le due volte che sono venuta ad accompagnare Giampiero alla Barca ho sentito un po’ di freddezza. Perché non provate a mettere qualcuno che faccia un po’ di accoglienza? Non per formalismo ma perché nella mia esperienza io ho sempre “riacciuffato” la mia personale strada per conoscere Cristo, attraverso alcune persone che mi hanno guardato e abbracciato facendomi sentire attesa, voluta bene. Insomma, qualcuno che possa dire a ogni ragazzo che entra: “Finalmente sei arrivato, proprio tu!”».
Queste parole mi sono rimaste per giorni nel cuore. Ho deciso di parlarne con gli adulti con cui seguo la Barca di Pietro. Alcuni di loro hanno espresso la stessa preoccupazione. Mi sono trovato così di fronte ad un’alternativa: mettere da parte le osservazioni di una madre oppure provare a capire cosa il Signore mi stesse chiedendo attraverso quella circostanza. Guardandomi intorno, ho scoperto che l’osservazione di quella mamma era pertinente.
Nelle ultime settimane, in effetti, mi ero preoccupato molto per i numeri: i ragazzi di prima media erano pochi rispetto agli anni precedenti e mi sentivo un po’ sconfitto. Grazie a quella mail, è nata in me una nuova consapevolezza: il Signore ce ne manda di meno, proprio perché ci possiamo rendere conto in maniera ancora più essenziale che la nostra responsabilità sta nell’accoglierli uno ad uno, ciascuno per nome. Così, un piccolo episodio ha segnato un nuovo inizio: invece della delusione che i sogni infranti provocano inevitabilmente, si trattava di provare ad amare quel che c’era. Amare l’istante così come mi si presenta è più soddisfacente che sognarne uno diverso. Scriveva ancora Giussani, in quelle lettere ai suoi ragazzi in missione: «Non c’entra nulla che riusciate o no a fare: Dio fa sì che diventiamo capipopolo come Mosè o solitari come Cristo in croce. Tutte le difficoltà, tutta la mancanza di risposta, tutta la “tentativa” amarezza per non poter fare, tutta la mortificazione per uno sbaglio, altro non sono che richiamo all’essenziale, Dio e il suo Cristo».

Nella foto, Luca Speziale, viceparroco di Santa Maria in Domnica a Roma, guida la Via crucis con i giovani per le vie del centro città. 

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