Il sacrificio che si scioglie in domanda

Quaderno 15 – Come aiuto a vivere la Quaresima, proponiamo una lezione di don Andrea D’Auria in occasione di un ritiro del Mercoledì delle Ceneri in Casa di formazione.

V. Polenov, «Sogno (sulla montagna)» (1900, Galleria Tetryakov, Mosca).

La Quaresima è il tempo che nasce dal nostro personale guardare a Cristo. Adesso Gesù non è più un bambino, che ha rallegrato i pastori nel Natale e che si è manifestato al mondo nell’evento dell’Epifania. Adesso Gesù è una presenza gigantesca dentro la nostra esistenza, che ci chiama a prendere posizione e che vuole cambiare il modo con cui guardiamo a noi stessi.
Egli si impone dentro la nostra vita, giudica i nostri pensieri, i nostri atteggiamenti. È una presenza che noi sentiamo come invadente.
Don Giussani ha scritto: «Più oggettivamente e più “finalmente”, l’importante è che tu guardi Cristo, tu chieda Cristo, riguardi Cristo. Se hai fatto uno sbaglio, lo guardi con un dolore dentro, ma non stai lì a guardare il tuo dolore, non stai lì a guardare l’errore che hai fatto […]. Bisogna guardare a Cristo. Allora questo, col tempo, ti matura a sentire gli errori, a percepire le direzioni false, a scegliere le cose vere, gli aspetti veri, le posizioni vere. Col tempo ti fa imparare questo: tu, guardando fisso una cosa, lentamente la vedi sempre più enucleata e vedi sempre più quel che non è essa».
Il nostro personale guardare a Cristo ci insegna un nuovo rapporto con noi stessi, con i nostri limiti, con le nostre capacità. Così, anche di fronte a un nostro progresso morale, non cadiamo nell’orgoglio e la costatazione di ciò che ancora in noi non va non ci distoglie dal contemplare la sua Presenza.

Una misura nuova

La Quaresima è il tempo in cui matura il nostro rapporto con il Signore. Una misura nuova è entrata nella nostra vita. Se noi la accettiamo, allora potremo quotidianamente fare esperienza del rifiorire della nostra umanità. Altrimenti affonderemo, schiavi della vecchiaia. Opporsi alla misura che Cristo ha portato nel mondo significa opporsi al cambiamento che egli esige in noi. Noi pensiamo che ciò che il Signore ci chiede sia gravoso, ma in realtà opporsi al cambiamento produce in noi un’amarezza e una fatica che sono ben più onerose del lasciarsi giudicare e correggere da lui. Quando il Signore nel Vangelo dice il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11,30), indica che la sequela a lui comporta un sacrificio, che però noi possiamo portare. La fatica, anzi, deriva proprio dalla nostra opposizione al nuovo modo di intendere noi stessi.
Soprattutto, opporsi alla misura nuova che il Signore porta nel mondo introduce nella nostra vita l’insofferenza al bene che vediamo attorno a noi e nei nostri fratelli. Dice don Giussani: «Questa misura tu la puoi trovare, accettare, ospitare; o verso di essa puoi avere il risentimento perché ti ha fatta, ti ha fatta così; tu odi, rifiuti quello […]. Nel primo caso, la realtà fiorisce anche nel dolore, anche nel più grande sacrificio fiorisce, come una primavera della tua vita. Nell’altro caso invece, scolorisce, marcisce, cioè la senti come avversaria. Anche se ti volgi a essa in modo apparentemente positivo: Eva e Adamo si sono messi di fronte alla realtà in modo apparentemente positivo, cioè: “Con la realtà io vinco, faccio a meno di Dio”. Ma in loro era più forte, prevalente, l’affermarsi o il fare a meno di Dio? Era più forte la sfida. Perciò è menzogna pura l’origine del male».
Il Signore è venuto nel mondo in polemica, a contrastare qualsiasi struttura, qualsiasi pensiero, qualsiasi pregiudizio che potesse opporsi alla sua accoglienza. Contempliamo la presenza gigantesca del Signore in tanti racconti significativi del vangelo: la risurrezione di Lazzaro, la guarigione del cieco nato, la lunga conversazione con la Samaritana, la disputa con i Giudei sulla discendenza di Abramo… Il Signore ci invita a un cambiamento di mentalità. A misurare, guardare, giudicare tutto in modo diverso.

Un cambiamento di mentalità

Poniamoci di fronte a questa Presenza, facciamole spazio. In questo tempo, ci sono chiesti penitenza, sacrificio, digiuno affinché noi possiamo creare lo spazio spirituale per poterla accogliere. Opporsi a questo bene produce tristezza e vecchiaia. Accogliere quest’uomo, questa presenza polemica, fa invece rifiorire la nostra umanità in qualsiasi circostanza.
Dice ancora don Giussani: «La parola cambiamento di mentalità, e cioè il cambiamento di nous. Cosa vuol dire “cambiamento di mentalità”? Mentalità da che verbo deriva? Metior,latino, che vuol dire misurare: il modo di misurare, cioè il modo di valutare, il modo di vagliare, ma nel senso proprio di valutare. Cambiate il modo di valutazione. Ciò che faceva colpo ai primi cristiani è, innanzitutto, il cambiamento che Cristo portava: un cambiamento persuasivo, vincitore di fronte alla mentalità» .
Nella nostra vita, l’opposizione alla misura nuova che il Signore ha portato si declina nella tentazione di fare a meno di Dio, nella tentazione dell’autonomia, di bastare a se stessi. Riteniamo di non aver bisogno di una presenza che ci cambi, che ci renda veri, di non aver bisogno che le strutture fondamentali della nostra personalità (il rapporto con noi stessi, con gli altri, con le cose) debbano continuamente essere risanate per essere autentiche, per essere se stesse. Insomma, crediamo di non aver bisogno di essere salvati.
Massimo Camisasca ha descritto spesso il rapporto col Signore concreto, fisico, affettivamente vissuto, come il consegnarsi a un luogo. Ebbene, sottrarsi a questo luogo cui siamo stati consegnati è il dettagliarsi nella nostra vita della tentazione dell’autonomia.
Nella nostra esistenza ci opponiamo al “depossessamento” con il quale il Signore vuole impadronirsi di noi. E l’opposizione si mostra nel desiderio di conservare delle zone franche, in cui nessuno può entrare, che nessuno può giudicare: l’ambito affettivo, il rapporto con i beni materiali, i soldi, il rapporto con i nostri genitori, con affetti del passato, la gestione del tempo… Insomma degli ambiti sottratti alla misura che Cristo ha portato nel mondo e quindi al vaglio della compagnia e di coloro che guidano la nostra vita.
Tutto ciò accade perché pensiamo, erroneamente, che si tratti di ambiti di riposo, in cui rinfrancarci spiritualmente dopo le fatiche dell’obbedienza e della vita comune. Se non viviamo un’obbedienza cordiale, lo stare in questa compagnia vocazionale col tempo ci vede stanchi ed esausti. Ci vede senza energie, e abbiamo bisogno di rifocillarci, di riprenderci.
E invece, affinché l’accoglienza di questa misura non sia qualcosa di amaro, non sia l’ennesimo peso da portare, immedesimiamoci con lo sguardo di Cristo sulla realtà, su come egli giudica noi stessi, i nostri rapporti. Si introduce così in noi il cambiamento.

Immedesimarsi con Cristo

«Il chiarirsi della risposta alla domanda: “Cosa farebbe Cristo?” si esprime come una specie di legge, una legge. Soltanto che non ti appare innanzitutto come legge. Per questo abbiamo detto all’Équipe degli universitari che la prima cosa è seguire Cristo […] Se tu segui Cristo, ti vien da desiderare di cambiare te stesso. Come dice San Giovanni in quella bellissima frase: “Chiunque ha questa speranza, si purifica come Egli è puro” (1 Gv 3, 3.). È proprio il seguirlo!» .
Questa immedesimazione si attua nella nostra vita come sequela a una presenza che campeggia nella nostra compagnia e cui dobbiamo consegnarci.
Se siamo disponibili al cambiamento, all’accoglienza di una misura nuova, nella nostra esistenza si rende quotidiana l’esperienza della trasfigurazione, l’esperienza nella quale la realtà comincia a mostrarci il suo vero volto, la sua vera struttura. Si rivela qual è la posizione di ogni azione, di ogni rapporto, di ogni affetto, di ogni interesse, di ogni cosa che i nostri criteri ritengono importante. Di tutto quello che viviamo si manifesta la giusta collocazione, il giusto riferimento dentro un disegno che non siamo noi a tracciare, di cui noi non possiamo stabilire i confini.

Se siamo disponibili al cambiamento, all’accoglienza di una misura nuova, nella nostra esistenza si rende quotidiana l’esperienza della trasfigurazione.

Quando questo succede, i diversi aspetti della realtà perdono di ogni pesantezza. Infatti, dopo il peccato originale tutto ciò che ci attrae esercita su di noi una “cattiva forza gravitazionale”. Quanto più abbiamo, tanto più siamo ingombrati. Anche le cose piccole, qualora siamo a loro malamente attaccati, possono diventare dei pesi che ci impediscono di elevarci verso il Signore, di sollevare lo sguardo.
Che cosa significa, dunque, che la Quaresima è un tempo sacramentale?
Significa che è un tempo di cambiamento più facile, in cui la trasformazione è più agevole. Un tempo in cui il valore, il merito delle nostre scelte è moltiplicato. Qualsiasi azione virtuosa di fronte a Dio ha un merito. Ebbene, è come se questo merito subisse un processo di moltiplicazione, se fosse maggiormente benedetto da Dio. La grazia che noi possiamo ricevere da qualsiasi azione buona compiuta in questo periodo (un atto di carità, la penitenza, l’accettare il digiuno), ha in noi un impeto di trasformazione maggiore, è più capace di cambiare noi stessi e i rapporti con gli altri.

Il Signore non ci richiama a sé in modo indistinto, come se tutto fosse uguale. Ogni tempo liturgico ha il suo posto dentro la nostra formazione: durante i quaranta giorni della Quaresima il cielo è particolarmente “permeabile” e tutto ciò che facciamo acquista un valore maggiorato di fronte a Dio.

La temperanza

A rimedio del nostro peccato la Chiesa ci propone il digiuno, la preghiera e le opere di carità fraterna.
Parlare di digiuno significa soprattutto parlare di temperanza: un temperamento dei nostri desideri, delle nostre aspirazioni, delle nostre tensioni. Cioè di ordinare tutto noi stessi, le nostre energie, i nostri istinti, secondo uno scopo: che tutto il nostro io sia di fronte a Cristo. Il digiuno, come atto di temperanza di se stessi, ha un valore paradigmatico. Tutto nella vita deve essere temperato, non solo i desideri della gola. Per ricordarci, però, che tutto deve essere educato e canalizzato verso un fine, verso la Sua presenza che ci sta davanti, cominciamo a prendere sul serio la tentazione della gola come possibilità di ascesi di tutto noi stessi che consiste nel mettere i nostri desideri di fronte alla Sua presenza. Non a caso, parlando della gola, la Chiesa insegna che è un peccato capitale.
Il nostro istinto, il nostro desiderio anche giusto, di amare ed essere amati devono essere modulati, temperati, educati secondo questo scopo. E la temperanza deve avere un aspetto ammaliante, accattivante: dobbiamo sentire da subito, nella nostra vita, il grande vantaggio del poterci educare secondo questa dinamica. Noi percepiamo questo vantaggio se abbiamo l’intuizione di domandare a una presenza che ci ama, a una presenza buona. Se accettiamo il temperamento del nostro io per una persona che ci ama, tutto diventa più facilmente sostenibile, più piacevole.
San Giovanni ricorda che la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita (cfr. 1Gv 2,16) sono le tre bestie feroci che ci fanno paura, ci assalgono e ci trascinano verso il peggio laddove non accettiamo che tutto il nostro io possa vivere questa educazione. Non è dunque fuori luogo parlare di sacrificio.

Accettare il sacrificio

Spesso sentiamo il termine “sacrificio” come qualcosa di fastidioso, di ripugnante, forse anche in dissonanza con l’educazione a tratti edonistica e naturalistica che abbiamo ricevuto. Don Giussani spiega che il sacrificio diventa qualcosa di leggero, se abbiamo la percezione che esso è la domanda a una persona che ci ama.
«La difficoltà del sacrificio, che è il paragone tra Cristo e quel che facciamo, diventa leggera e facile se si scioglie in domanda: la domanda che ci aiuti. La domanda a Lui è come quella del bambino di tanti esempi fatti, che guarda in faccia la mamma. A un brutto ceffo o a un estraneo non fai una domanda; la fai a una faccia familiare. Giovanni e Andrea ricordavano quella faccia vista alcune ore prima come familiare e allora, sorprendendosi sempre ad arrabbiarsi in casa, dentro di loro qualcosa diceva all’immagine che avevano in testa, al ricordo che avevano in testa: “Perdonami! Aiutami a essere come Te”».

La Quaresima è un tempo sacramentale?
Significa che è un tempo di cambiamento più facile, in cui la trasformazione è più agevole.

A questa presenza che ci ama, noi domandiamo il miracolo di una coerenza morale, domandiamo l’accettazione del sacrificio. Chiediamo al Signore che ci renda capaci di assumere ciò che Lui stesso desidera della nostra vita. Sottolineo la dolcezza di questa frase: «In fondo, ha più dolcezza questa soglia della domanda che neanche il contenuto della tentazione».
Il contenuto della tentazione, se posto di fronte a questa domanda, si scioglie, diventa qualcosa di meno trascinante, che noi possiamo temperare e vivere secondo un fine. «La volontà di sacrificio è volontà di domanda, che il Signore ci renda capaci di un sacrificio che da soli non saremmo capaci di fare. Domandare di poter vivere il sacrificio che Lui stesso ci ha chiesti».
La domanda come accettazione del sacrificio è che il Signore ci dia la forza di vivere un contenuto che lui stesso ci propone. Seguendo questa dinamica, capiamo con il tempo che la persuasività e la dolcezza di questo rapporto sono ben maggiori del contenuto di ogni tentazione.

Resistere all’amore

Che cosa succede in noi quando non siamo disponibili alla temperanza? Quando, cioè, non accettiamo la parte di sacrificio ineludibile nella nostra vita? Per ciò che concerne l’affettività, il non accettare il sacrificio porta al fatto che siamo incapaci di amare. Amiamo nel rapporto con l’altro solamente il riverbero estetico che il rapporto affettivo produce in noi. Siamo incapaci di stare davanti all’altro, anche quando pensiamo di amarlo. In realtà ci rispecchiamo nell’altro, amiamo il sentimento che l’altro ci produce. E quindi amiamo, in fondo, soltanto noi stessi. Si tratta della «tentazione estetica» di cui parla don Giussani ne Il senso religioso. Non amiamo il significato, le cose, ma solamente il riverbero estetizzante che le cose producono in noi. L’affettività vissuta in questo modo diventa un principio di chiusura, non è più un’occasione di comunicazione con l’altro. Sono capace di amare e di conoscere solamente me stesso, ma illusoriamente, perché senza un tu io non mi ritrovo, non sono capace neanche di conoscere la mia persona.
La mancanza di sacrificio porta, nel rapporto tra di noi, l’incapacità a vivere la carità come accoglienza dell’altro. Noi prendiamo dell’altro solamente quello che ci interessa, un certo aspetto di simpatia perché ci corrisponde, perché ci aiuta, perché ci fa compagnia; ma non siamo mai capaci di accettare l’altro così com’è nella sua interezza. Ciò porta a una strumentalizzazione dentro i rapporti, perché io mi avvicino a te solamente per quello che mi interessa istintivamente.
L’impossibilità di accogliere l’altro così com’è ha due flessioni.
La prima è la mancanza di perdono. Non siamo più capaci di ricominciare dopo un torto ricevuto o fatto. Nell’incapacità a perdonare, la correzione diventa l’esaltazione del limite che è nell’altro: io ti correggo perché ci tengo a mettere in luce il fatto che tu hai sbagliato, ci tengo a esaltare il tuo male. Nello stesso tempo, siamo incapaci di ricominciare nei rapporti dopo uno sgarbo che abbiamo fatto, perché ci sentiamo in colpa e siamo pietrificati davanti al senso del nostro limite.

La seconda conseguenza è il pensiero che l’altro non possa più cambiare, costringendolo a una sterilità spirituale: “Ormai tu sei così e ci ho messo una pietra sopra”. Se siamo scettici di fronte alla possibilità che l’altro possa cambiare, il rapporto non può rifiorire.
Qual è il giusto atteggiamento di fronte al male altrui? Scrive don Giussani: «La parola giusta […] è la parola dolore; ma è la stessa cosa anche di fronte allo scandalo. Nel primo caso è il dolore che guarda per vedere la pietà dell’altro, per domandare la pietà dell’altro; nel secondo caso è il dolore che afferma la possibilità della conversione. Insomma, quando uno sbaglia, nella società, tutti parlano male: i vicini parlano male dei vicini, mormorano, pettegolano. Se è una cosa che va nelle mani di un giornalista, diventa scandalo sui giornali. Il mondo fa lo scandalo – questo lo dice Gesù nel Vangelo -: il mondo ama lo scandalo, tant’è vero che lo scandalo è distruzione, è impossibilità e distruzione. L’opposto della impossibilità e della distruzione è quella libertà che ti fa riprendere: invece di scandalo è correzione, correzione e conversione. In ciascuna di queste parole sta dentro, da un capo, la parola dolore e, dall’altro capo, la coscienza di una bellezza, di una verità. Perciò, è un dolore che torna ad aspirare: invece che scandalo, diventa aspirazione al bene, cioè conversione».
La vera correzione fraterna ci permette di desiderare insieme il bene, di desiderare insieme il cambiamento. La differenza tra scandalo moralistico e la vera moralità è la possibilità di redenzione, è invitare l’altro a comprendere che l’ideale è più grande del tuo limite, che Dio è più grande del nostro cuore (cfr. 1Gv 3,20).

La tentazione naturalistica

Nella nostra vita, c’è ancora un’altra opposizione a questa dinamica di cambiamento. Si tratta della tentazione dell’approccio naturalistico.
Pensiamo alle tentazioni nel Vangelo (cfr. Mt 4,1-11): inizialmente il demonio non suggerisce a Gesù azioni sbagliate o immorali. Gli dice infatti: “Hai fame? Dì che queste pietre diventino pane!” Che cosa c’è di male nel mangiare? È la cosa forse più naturale del mondo. L’antico avversario non chiede cose in sé sbagliate, ma punta sull’istintività. Il demonio punta sempre sull’affermazione di desidèri e bisogni scardinati da un contesto più grande.
La tentazione si costruisce sempre su un giudizio errato per il quale viene prima di tutto l’istinto. Il semplice fatto di avere un bisogno è già un’ottima giustificazione per accontentarlo e per assecondarlo. Il demonio nella nostra vita punta sempre sulla naturalità, su uno sguardo a quello che noi siamo che si dimentichi dell’evento che si è posto dentro la nostra vita.
Don Giussani scrive: «Ma dove sta il concetto di tentazione? Dove sta l’immagine del sacrificio o della prova? È che ciò che è menzogna, ciò che è ostile all’essere, ciò che è ostile alla vita – satana – ti dice: “Mangia di tutto, non fare nessun sacrificio, non è vero che il sacrificio è bene. Ti ha proibito di mangiare di quell’albero e invece mangiane!” (cfr. Gen 3, 4-5). Sembra positivo, lui sembra positivo, e l’esito è la morte. Mentre, l’affermazione amorosa dell’essere ordina tutto, vale a dire mostra la piccola cosa che fai dentro la grande cosa […]. Ma per far stare la tua piccola cosa nella cosa grande, non puoi dilatarla come se fosse lei la cosa più grande».

Sacrificio e profondità

Il sacrificio è necessario per la nostra vita, per godere in pienezza di ciò che noi siamo, dei rapporti, degli amori e degli affetti. Il sacrificio prende l’avvio dalla considerazione che le strutture fondamentali del nostro io si sono corrotte: dopo il peccato originale le cose più fondamentali (amare, essere amati, il rapporto con sé stessi, il rapporto con gli ideali della nostra vita) hanno dentro una malattia mortale.
«Per questo non si può capire come mai c’è il sacrificio, se non si spiega nello stesso tempo tutto quello che viene prima: la degradazione in quanto diventa voluta. L’uomo cede alla tentazione, diventa estraneo; e soltanto un altro tu, un’altra volta il tu che sta al di là delle cose entra in gioco e, unico, lo può salvare».
L’uomo è estraneo a se stesso. Solamente un altro può salvarlo, può far ritornare le cose al loro stadio primitivo (la giustificazione) cioè quello di aiuto alla conoscenza.
Sacrificio e profondità vanno insieme, sottolinea don Giussani: «La profondità e il sacrificio sono sempre pari, perché una profondità che non implica un adeguato, un analogo sacrificio è una profondità astratta, una vibrazione estetica o un’idea. Senza sacrificio tutto è estetismo, secondo la frase di Saturnino, filosofo del IV secolo, che dice: “I riti sono cose che ci sono sempre e non accadono mai”».
La verità è una cosa eterna, che nella nostra vita non accade se non siamo disposti a questo sacrificio. La frase di Saturnino, filosofo gnostico, è la definizione esatta di che cosa sia la religiosità al di fuori del Cristianesimo. La gnosi si basa su quel rapporto con Dio che è sempre, ma non accade mai; non si determina mai in un fatto singolo, così da poter essere conosciuto da tutti, ma è semplicemente un rapporto che si stabilisce con Lui in un’eternità senza tempo.
La Quaresima è l’occasione propizia che la Chiesa ci offre ogni anno affinché questo ideale possa entrare nella nostra carne, nella concreta materialità delle nostre esistenze. Nella nostra carne purificata dal peccato, oserei dire trasfigurata; purificazione che avviene anche a prezzo di un sacrificio. Nel sacrificio della nostra mendicanza a Dio.

(Il testo raccoglie alcuni stralci di una lezione tenuta ai seminaristi in casa di formazione il mercoledì delle Ceneri, 9 marzo 2011.)

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