Di solito, entrando in un ambiente nuovo, in un ufficio come in una casa, chiunque cerca di ritagliarsi uno spazio proprio, in cui poter essere riconosciuto e apprezzato da colleghi e vicini. È normale che succeda, anche quando i colleghi sono educatori di professione e i vicini sono gli ospiti della cooperativa Nazareno, che dagli anni ’80 offre una casa e un lavoro a centinaia di ragazzi disabili di Carpi e dintorni. È stata l’amicizia con il fondatore, don Ivo Silingardi, ad aprire alla Fraternità San Carlo le porte del Centro Emmanuel e di Mano libera, i due poli principali in cui si dispiega la proposta educativa della Nazareno. Al centro c’è sempre la persona, a cui l’amicizia e il lavoro sono offerti quale occasione per scoprire la verità di sé.
Entrando a Villa Chierici, dove sono accolti i ragazzi con le disabilità più gravi, la mia preoccupazione principale era proprio quella di ottenere l’approvazione degli educatori e degli ospiti del centro. Desideravo incidere da subito nella loro vita, portando un cambiamento visibile. D’altronde, se ero lì dovevo dare anch’io il mio contributo.
Una mattina mi viene chiesto di lavorare insieme a Pietro, un signore sulla cinquantina che dall’età di sette anni ha le gambe e la parte sinistra del corpo paralizzate a causa di un incidente stradale. È sulla sedia a rotelle e non parla bene, tanto che spesso non capisco che cosa dice. Tuttavia è proprio lui a raccontarmi la sua storia, per dar ragione della sua forza erculea di cui è molto orgoglioso, tutta concentrata nel braccio destro.
Una volta arrivati nell’atelier, un’educatrice ci spiega che avremmo dovuto levigare alcune grosse palle di argilla, destinate a diventare addobbi di Natale. Ci mostra come fare e infine ci dice di stare attenti a non romperle, perché il negozio che aveva richiesto i loro manufatti ne aveva ordinato un numero preciso. Recepita anche l’ultima raccomandazione, imposto il lavoro: io con la palla in mano e Pietro con la carta vetrata per strofinarla. Dopo qualche minuto, Pietro deve riposare il braccio e penso subito che a quel ritmo non avremmo prodotto poi molto. Allora gli chiedo di fare cambio: lui mette a disposizione la sua forza per tener ben ferma la palla, io invece posso usare ora una ora l’altra mano in modo da non doverci fermare più. Adesso siamo davvero efficienti. Una, due, tre palline levigate in poco tempo, quando mi accorgo che ne mancano poche per finire la scatola. Sarebbe stato merito mio, in fondo. Allora insisto, incito il mio compagno di lavoro e strofino sempre più forte, finché a un certo punto siamo costretti a fermarci. Guardo la palla d’argilla rotta in mille pezzi tra le dita di Pietro e mi volto di scatto verso l’educatrice. Sono preoccupato della sua reazione e non faccio caso a Pietro che dietro di me sta gridando qualcosa. Lei invece capisce subito. «Ascolta», mi dice. Io mi giro di nuovo, ma colgo solo poche parole mentre Pietro ripete in continuazione gli stessi suoni, la stessa breve, incomprensibile frase. «Chi non fa non falla. Chi non fa non falla. Chi non fa non falla». È quello che sua nonna gli diceva da bambino, per farlo rialzare ogni volta che cadeva.
È quello che Pietro ha imparato in questi anni alla cooperativa Nazareno: non è ciò che riesci a fare a determinarti, quanto invece dipendere da un’amicizia che non si scandalizza di te, sempre pronta a perdonarti. E a ricominciare con te.
(Nella foto, seminaristi in visita a San Pietro con alcuni ragazzi della cooperativa Nazareno.)