Una volta sentii dire a don Giussani che il cristianesimo è un evento affettivo. Questa frase mi colpì ed interrogò molto, seppur mi risultasse strana. Col tempo ne capii tutto il suo valore e profondità. L’evento di Gesù in mezzo a noi è qualcosa che io posso capire solamente se vi entro con tutta la mia capacità e desiderio di amare e di essere amato; con il desiderio che tutte le mie domande e attese trovino aiuto e risposta.
L’affermazione di don Giussani ripropone in chiave moderna la saggezza agostiniana, espressa dal famoso brocardo nihil cognoscitur nisi per amicitiam (non si conosce nulla se non attraverso l’amicizia). La conoscenza è un evento dell’affettività e non solo dell’intelligenza. Per capire – cioè per accogliere – per afferrare, mi devo coinvolgere, quasi commuovere, e non posso restare un ascoltatore distratto ed estraneo a ciò che sta succedendo. Penso che questo si capisca soprattutto nell’evento del Natale ove il bambino Gesù si svela solo a chi è disposto ad amarlo ed accoglierlo.
Ma ogni innamoramento è in un certo qual modo una profezia di tutto ciò. Intuiamo qualcosa solo se siamo disposti a stare di fronte all’amato. Se non siamo disponibili a questa implicazione affettiva, Gesù e l’altro resteranno per noi un ultrasuono.
Domanda di vita vera
Se quindi il cristianesimo è un evento affettivo, il vertice di quest’avvenimento si esprime come amicizia. Si è detto che per don Giussani l’amicizia è una virtù; penso che volesse dirci, in un modo più comprensibile ed attuale per noi giovani, quello che san Tommaso intende quando nella Summa afferma che il vertice della carità è l’amicizia. L’amicizia è l’atteggiamento positivo, creativo, aperto, oserei dire speranzoso, che l’uomo è chiamato ad avere in tutto ciò che fa ed incontra.
Quest’amicizia si esprime come domanda, come mendicanza di fronte a Dio. L’unico modo per entrare in rapporto vero col Mistero è la domanda; domanda di essere, di esistere in una pienezza di vita vera.
Questa domanda acquista sorprendentemente e da subito il carattere di reciprocità: noi mendichiamo la salvezza e il Signore mendica il nostro cuore, il nostro sì, il nostro desiderio. Come ebbe a dire don Giussani davanti a Giovanni Paolo II: «Dio mendicante del cuore dell’uomo e l’uomo mendicante del cuore di Dio». Ma ancora una volta il nostro rapporto con Dio si nutre di amicizia e quindi di reciprocità. Si può essere amici perfino di Dio e non è temerario dire che noi siamo i suoi migliori amici. Del resto anche Gesù sulla croce ha avuto sete: ci ha chiesto da bere, ha avuto sete del nostro cuore, del nostro desiderio e della nostra conversione. Gesù incontrando la Samaritana al pozzo di Giacobbe si è reso bisognoso del suo aiuto per dissetare tutti noi.
Certo, di fronte a questo desiderio di amicizia e di pienezza la realtà della morte sembra confutare e rinnegare tutto. Ma in questo don Giussani ci aiutava sempre, mettendoci in guardia dal pericolo del nichilismo. «Tu sei, tu esisti – ci diceva sempre – e questo nessuno può metterlo in dubbio». Possiamo anche considerarci come un grumo di terra sperduto nell’universo, ma è un grumo che è capace di entrare in rapporto col tutto, di dire “Tu” al Mistero.
Questa percezione fonda in noi la libertà. Inestirpabile, irriducibile; la libertà come tensione verso l’Assoluto ci permette di non essere una semplice conseguenza di quello che è stato prima. Questo ha una grande rilevanza esistenziale: noi non siamo il semplice risultato del nostro passato; c’è in noi un qualcosa che si svolge ora, momento per momento, nell’istante, indeducibile dall’attimo precedente, come amicizia col Mistero. Noi non siamo la somma dei nostri errori, delle cose che abbiamo fatto e neanche delle nostre buone azioni.
«Affettività redenta da Cristo»
Don Giussani ci ha anche insegnato che l’amicizia si nutre di verginità. «Verginità è dire ti voglio bene e fare un passo indietro» – così sentii dire da don Giussani nel definire che cosa fosse l’atteggiamento verginale. La verginità è, infatti, una continua possibilità di memoria, di aiuto reciproco, di custodia vicendevole – come ha detto papa Francesco all’inizio del suo pontificato – ove tutto diventa occasione per ricordarsi del Mistero presente.
Educarsi alla verginità vuol dire anche entrare nella percezione che la vita è dono, che tutto è dono, che io sono un regalo fatto a me stesso; che tutto è per noi. La verginità significa avventurarsi nella percezione che il mio rapporto con l’altro mi educa e m’introduce in una prospettiva infinita. «Verginità è guardare la realtà, persone e cose così come le guarda Cristo e questo è un Ideale a cui tutti siamo chiamati, perché la verginità è l’affettività redenta da Cristo» – diceva sempre don Giussani.
Nella comunità cristiana
Parlare di cristianesimo come evento affettivo ci induce alla comprensione che Dio è misericordia. Una volta don Giussani disse che senza il rapporto col Signore dovremmo cancellare questa parola dal vocabolario degli uomini del nostro tempo. «La misericordia è la giustizia di Dio che ci rigenera continuamente» – affermava don Giussani – e senza questa rigenerazione noi non siamo capaci di perdonare, di accogliere l’altro così com’è e di non lasciarci definire dai nostri e dagli altrui limiti.
L’amicizia, se vissuta in modo vero, è fonte di missione; essa accende in noi il desiderio che sempre più persone lo possano conoscere e amare, anche attraverso la nostra affettività. Se io sono veramente contento di ciò che ho incontrato, dell’amicizia che vivo, allora mi sembrerà quasi naturale annunciarlo agli altri.
Ma alla fine tutte queste cose si possono comprendere solamente dentro la vita di una comunità cristiana che ce le insegna e ce le mostra. Il Mistero lo possiamo più intuire che spiegare: che esista Dio, che egli sia venuto in mezzo a noi, che sia morto per la nostra salvezza, sono tutte realtà che non possiamo capire a tavolino, ma che si incontrano nel corpo vivo della Chiesa.
(Nella foto grande, don Giussani all’eremo del Beato Lorenzo, a Subiaco, anni 60 – Foto Elio Ciol).