Don Francesco Facchini, oggi segretario generale della Fraternità San Carlo, racconta la storia della sua vocazione

Fin da piccolo mi è sempre piaciuto cantare. A scuola e durante i campeggi estivi, le maestre ci insegnavano canzoni nuove e belle. In particolare, sono due le canzoni che ricordo di aver cantato più spesso a quei tempi: Il disegno e Un Amico. Le musiche erano semplici e s’imparavano velocemente. Non capivo tutto il significato di quelle canzoni, ma una cosa mi era chiara: c’è Qualcuno che ha un disegno su tutte le persone, e c’è un Amico davvero in gamba.
La storia di questo Amico grande e giusto mi faceva nascere una domanda: che faccia avrà? Quando pensavo ai miei amici, avevo in mente il loro volto. Come potevo chiamare amico qualcuno che non vedevo? Durante il periodo del catechismo, ci sono stati momenti in cui questa domanda mi ritornava alla mente in modo insistente. Da solo, non riuscivo a rispondere.
Mentre frequentavo le scuole superiori, mio fratello Alessandro iniziò l’università a Bologna. Ogni volta che tornava a casa, era contento e portava con sé nuovi amici. Così, di una cosa divenni certo: finite le superiori, sarei andato a Bologna per vivere anch’io come mio fratello. E lo feci: dopo aver provato Medicina, mi sono iscritto a Economia. Ho incontrato alcuni ragazzi con cui è iniziata un’amicizia gratuita e inaspettata. Insieme, studiavamo, cantavamo e pregavamo, approfondendo l’esperienza del movimento di Comunione e Liberazione.
In quegli anni, accaddero due fatti che mi segnarono profondamente. Il primo fu l’udienza concessa da Benedetto XVI a Cl in piazza san Pietro a Roma, il 24 marzo 2007. In attesa che il Papa arrivasse, cercavo intorno a me dei volti conosciuti. Un amico, Angelo, stizzito dalla confusione che facevo, mi diede una strattonata, invitandomi a non buttare via quel tempo prezioso. Cominciai allora a stare attento a quello che gli altri facevano, a cantare e a seguire. Mi accorsi che tutto parlava di me. Capii che la Chiesa, in quella compagnia, era la mia casa: quello era il volto dell’Amico. E compresi che avrei voluto lavorare per quella compagnia, pur non sapendo in che modo. Il viaggio di ritorno fu tutto determinato dal silenzio: non volevo perdere quello che avevo appena vissuto e riconosciuto.
Il secondo fatto che segnò la mia vita accadde appena tre mesi dopo: le ordinazioni di alcuni preti della Fraternità san Carlo. Invitato da Angelo, accettai di andare a Roma con un gruppetto di compagni universitari. Durante la festa che seguì alla messa, rimasi colpito dalla letizia dei seminaristi che suonavano. Non avevo mai incontrato ragazzi contenti di lasciare tutto per vivere per Cristo. Scoprii che desideravo essere felice come loro, essere come loro.
Finita l’università, sono andato a Londra per imparare l’inglese. L’ospitalità e la gratuità con cui ero stato accolto dalla famiglia che mi ospitava si scontravano in qualche modo con i volti delle persone che vedevo tutte le mattine in metropolitana, andando a lezione in centro. Erano tanti individui solitari. Mi domandavo quanti di loro sapessero di Gesù e, a volte, mi trovavo a pregare per quei volti che non avrei rivisto mai più, chiedendo che anche loro potessero, un giorno, incontrare la bellezza della vita cristiana. Questo interesse per gli altri cresceva di giorno in giorno. Pensavo: «Ho ricevuto tante grazie. Che cosa posso fare se non ridonare nuovamente tutta la mia vita a Colui che me l’ha data?».

Così la compagnia, gli amici, la missione incominciarono a prendere sempre più concretezza da quando, sette anni fa, chiesi di entrare nella Fraternità, che oggi è il volto più prossimo dell’Amico.

Nell’immagine, piazza San Pietro (foto Carlo Mirante).

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