Nathaniel Hawthorne scrisse il grande romanzo storico La lettera scarlatta, per indagare sul passato calvinista dell’America. In maniera analoga ai nostri Promessi sposi, l’autore s’immagina il ritrovamento di un antico documento, che narra la storia dell’eroina del romanzo Hester Prynne. Un’eroina tutta particolare, visto che fin dalla prima pagina sappiamo essersi macchiata di uno dei più gravi peccati: l’adulterio. Per questo viene costretta da tutta la comunità di Salem (il paese natale di Hawthorne) a vestirsi della lettera scarlatta, la “A” di adultera. Ella dovrà portarla sempre, perché la vergogna delle sue azioni possa purificare la sua anima. La situazione è resa ancora più drammatica dal fatto che l’adulterio, reso pubblico dalla gravidanza di Ester in assenza del marito, è stato compiuto con il carismatico pastore puritano della città, l’eroe religioso della stessa comunità che vuole punire Ester.
Leggendo, entriamo in un mondo tragico e in qualche modo affascinante. Il peccato è il grande nemico da abbattere, eppure niente sembra scalfirne il potere. E nonostante il fatto che la vergogna, il ribrezzo e lo scandalo siano in sé giusti, essi non hanno il potere di convertire il cuore. Il più feroce dei moralismi resta un’opera umana, incapace di rimuovere il male.
Ma nel procedere del romanzo una conseguenza ancora più profonda si svela. Non esiste peccato del singolo, non esiste peccato che coinvolga solo l’individuo. Tutti i personaggi coinvolti nella caduta dell’adultera (il marito tradito, il pastore che ha commesso l’adulterio ecc.) sono feriti, cambiati per sempre da ciò che è accaduto. Nessuno può dirsi completamente innocente. Anche l’innocente per antonomasia, e cioè la piccola Pearl, nata dall’adulterio stesso, porta realmente la ferita del peccato della madre, soprattutto nella negazione del rapporto con il padre. Magistralmente Hawthorne svela il limite supremo del puritanesimo: la riduzione del peccato, e quindi dell’uomo che lo compie, a mera materia individuale.
L’ironia del romanzo è sottile e feroce. Come è possibile sconfiggere il male, se esso si riflette così profondamente su tutto l’universo? Infatti ciò che il male causa più profondamente non è solo la vergogna del singolo per aver infranto i principi morali, ma la rottura della comunione con Dio in cui l’uomo dovrebbe essere. L’ironia sta tutta qui: la risposta rigorosa e severa della comunità puritana, che sembra così impegnata nella lotta con il male, in realtà non lo scalfisce minimamente. Perché per sconfiggere il male, non basta pagarne individualmente le conseguenze, ma occorrerebbe ristabilire quella comunione perduta. Ma ottenere ciò è fuori dalla possibilità dell’uomo, come capisce tragicamente il pastore Dimmesdale.
È il paradosso da cui l’America non si è mai liberata, e che ancora la definisce visceralmente. Ed è il motivo per cui consiglio questo libro a tutti coloro che vogliono conoscere l’anima americana. Anche oggi, ogni americano è chiamato a vivere una responsabilità individuale assoluta, come, per esempio, nei confronti della legge. Basti pensare che per esprimere un dovere basta scrivere a caratteri cubitali: «It is the law!». Eppure tutti soffrono delle ferite dei peccati degli altri: dei padri, delle madri, degli amici.
Ma se io sono solo di fronte al compito di compiere il bene, come mai poi devo soffrire dentro di me di tutto quello che gli altri compiono? L’individualismo americano porta in sé una solitudine esistenziale. È possibile essere buono, se sono solo di fronte al mio compito nel mondo? Però chi può avere successo contro il male, subito o inflitto? È una trappola mortale, da cui nasce una rabbia infinita. A mio avviso l’amoralità dilagante è il rivelarsi di questa rabbia nascosta, come certi eventi di cronaca dimostrano troppo facilmente. Non si può essere buoni, infatti, senza essere perdonati, senza appartenere a quell’Amore che solo può vincere il male. La grandezza del romanzo è quella di centrare il problema: non si può vivere senza qualcosa di più del moralismo. Non si può vivere senza accedere ad un perdono che sia raggiungibile, perché fondato sull’agire di Dio che si piega sulle nostre ferite.
(foto Christopher Schoenbohm)