Io, Nicolò e David visitiamo i detenuti di un istituto penale minorile due volte a settimana. Il venerdì pomeriggio i ragazzi escono al campo di calcio per giocare e noi approfittiamo di quell’ora e mezza per chiacchierare con quelli che non vogliono giocare e si fermano a bordo campo. Al rientro li accompagniamo e ci fermiamo con loro, fino al momento in cui viene servita la cena. La domenica mattina, invece, abbiamo a disposizione un’ora per incontrare i ragazzi all’interno delle palazzine e poi invitiamo chi vuole a partecipare alla messa nella cappella del carcere.
Non chiediamo quasi mai ai ragazzi il motivo per cui si trovano in carcere. Le prime volte che andavo a trovarli e li vedevo giocare a calcio, mi sembrava di essere in un oratorio parrocchiale, magari uno di quelli che si possono trovare in un quartiere difficile di una grande città. Poi invece, a mano a mano che entravo in confidenza con i ragazzi, e che questi mi raccontavano qualcosa della loro vita, mi sono reso conto dei grandi pesi che essi portano: il peso di famiglie assenti o distrutte, le violenze subite, la mancanza di amore. Le numerose cicatrici che si possono vedere incise sulle loro braccia e gambe (dovute a ferite che essi stessi s’infliggono) sono segno delle ben più profonde ferite mai rimarginate che sono state inflitte alla loro anima. Alcune di quelle profonde cicatrici sono state lasciate dal male che essi stessi hanno compiuto.
Come sul volto di un contadino compaiono precocemente le rughe, segno del duro lavoro, dell’esposizione al sole e al freddo, così dagli occhi di questi ragazzi traspare un invecchiamento prematuro dovuto all’esperienza dei torti subiti e compiuti, che gravano sulla loro anima.
Un giorno stavo chiacchierando con alcuni ragazzi, quando il discorso prende una piega inaspettata e due di loro mi fanno sapere il motivo per cui un terzo detenuto si trovava in carcere. Si trattava di un ragazzo che avevo già conosciuto e che solitamente si fermava a parlare con me. Era la prima volta che venivo a conoscenza del crimine compiuto da uno dei ragazzi ed è stato come un pugno nello stomaco. In quel momento ho provato un forte rifiuto, un dolore, un rigetto. Improvvisamente ho percepito il crearsi di una distanza abissale fra me e quel ragazzo, con il quale avevo iniziato a entrare in rapporto.
Quella mattina non sono riuscito a parlare con lui. Poco dopo, però, ci siamo trovati vicini a messa nella cappella del carcere. Mentre ripetevamo assieme le invocazioni «Signore, pietà. Cristo, pietà. Signore, pietà», mi sono reso conto che io e lui ci trovavamo nella medesima situazione, che chiedevamo la stessa cosa, che stavamo esprimendo, con quelle parole, lo stesso bisogno: quello di essere liberati dal nostro male, di essere salvati. Stando insieme, io e lui, di fronte all’altare, implorando la misericordia di Dio, quella distanza tra noi che prima mi sembrava incolmabile era stata ridotta. Non c’era una graduatoria tra il mio male e il suo male ed entrambi eravamo lì a tendere le braccia e a chiedere di essere perdonati, di essere liberati.
Da quel giorno, vedendo anche l’amore e la dedizione di Nicolò e di David nel rapporto con loro, ho iniziato a guardare quei ragazzi con uno sguardo di tenerezza e con un’urgenza. Perché io so che c’è Uno il cui braccio è, come canta Chieffo, «più forte del male e più grande dell’ora». Loro ancora no.
Nella foto, un momento di incontro con un giovane detenuto.