Quattro anni fa, ho conosciuto Jenny, Mark e John, tre ragazzi con la sindrome di Down. Hanno fra i trenta e quarant’anni. Li vedevo ogni domenica arrivare a Messa, sedersi sempre nella stessa panca insieme alle loro mamme. Quando arrivava il momento di ricevere la comunione, si mettevano in fila come tutti, ma arrivati davanti al prete incrociavano le braccia davanti al petto e chiedevano una benedizione, come fanno quelli che non possono ricevere i sacramenti.
La cosa non mi lasciava tranquillo. Dopo qualche mese andai a parlare con le loro mamme e chiesi loro: “Perché i vostri figli non ricevono la comunione?”. Risposta: “Nessun prete ce l’ha mai proposto e noi non abbiamo mai avuto il coraggio di chiederlo”. “Se siete d’accordo, io li vorrei preparare. Possiamo vederci settimana prossima?”. Con un misto di imbarazzo e felicità le mamme mi dicono di sì.
Così organizzo un incontro per prepararli alla loro prima comunione. Jenny, Mark e John non parlano bene, il più delle volte devo chiedere alle loro mamme di “tradurre” quello che dicono. Uno di loro continua a ripetere “Kaka, kaka, kaka…”. Io non capisco e chiedo alla sua mamma cosa significhi. Lei mi dice: “Sta dicendo il tuo nome: Luca”. Poi prendo in mano un’ostia non consacrata e gliela faccio vedere e per quasi mezzora, indicandogliela, non faccio altro che ripetere: “Jesus, your best friend”. “Gesù, il vostro migliore amico”. Poi guardo Jenny, l’unica ragazza del gruppo, e le dico: “Gesù, il tuo sposo”. La settimana successiva, il giorno della loro prima comunione, Jenny entra in chiesa tutta vestita di bianco, come una sposa nel giorno del suo matrimonio.
L’amicizia con loro continua. Ci fermiamo a chiacchierare dopo messa sempre più spesso. Mi colpisce sempre quanto siano affettuosi, trasparenti, senza sospetti. Abbracciano le persone, anche quelle che hanno appena conosciuto, urlano il tuo nome da lontano quando ti vedono (“Kaka, kaka, kaka!”), non hanno mai fretta di andare a fare altro, chiedono scusa immediatamente quando dicono o fanno qualcosa di sbagliato… ho l’impressione che in un mondo affettivamente ingessato siano le uniche persone veramente normali.
Un giorno li invitiamo a cena a casa nostra, insieme ai loro genitori. Da buoni italiani cuciniamo una pasta all’amatriciana. Stiamo seduti a tavola per un’oretta. A un certo punto mi viene in mente di tirare fuori la chitarra. Comincio a strimpellare qualche canto che facciamo con i bambini: Swing Low, Freedom… Andiamo avanti a cantare per un’altra ora. Era da due anni che – a causa della pandemia – avevo perso l’abitudine a cantare.
Dopo qualche giorno chiamo le loro mamme e le dico: “Perché non ci troviamo regolarmente, una sera a settimana, insieme ai vostri figli?”.
Così a febbraio di quest’anno è cominciato quello che si chiama Ark of Fellowship (L’arca dell’amicizia), un gruppo per disabili al quale sono invitati anche le loro famiglie e i loro amici. Ci troviamo ogni giovedì sera, alle 18.30, per due ore. Cominciamo sempre con una cena e poi o un momento di canti o qualche attività: cantiamo gli Abba, i Beatles, i Take That, facciamo gli origami, coloriamo un’immagine da appendere in camera da letto, rappresentiamo una scena del vangelo o la storia di un santo. Concludiamo sempre con una preghiera. Chiediamo a tutti di dire, uno alla volta, il nome di qualcuno per cui vogliono pregare o un’intenzione particolare.
In una società che predica il rispetto per le diversità, ma permette l’aborto di bambini con disabilità fino al nono mese, che ritiene “normale” ogni capriccio individuale, che spinge i ragazzi a ritenersi dei falliti se non prendono buoni voti a scuola, l’amicizia con Jenny, Mark, John e le loro famiglie mi insegna che il valore di ogni essere umano non va dimostrato, ma è già dato ed è quel filo invisibile che lega ognuno di noi a Colui che ci ha creato, voluto e amato. Mi insegnano anche qualcosa che spesso sono il primo a dimenticare: essere normali non significa altro che essere come loro: disarmati.
Jesus, your best friend
Dalla preparazione alla prima comunione alla nascita di un gruppo di amici che accoglie disabili e le loro famiglie: una testimonianza dall’Inghilterra.