Quest’estate ho ricevuto un grande regalo. Nel giro di tre settimane, ho potuto accompagnare nel Cammino di Santiago due gruppi di ragazzi: prima, i miei alunni del liceo, poi, i ragazzi di Gioventù studentesca della nostra parrocchia di Fuenlabrada. In entrambi i casi, abbiamo percorso lo stesso tragitto, l’ultima parte del Cammino francese, 160 km da O Cebreiro fino alla cattedrale di Santiago de Compostela.
Una volta tornati, alla domanda su come fosse andato il Cammino, non riuscivo a trovare parole adatte a descrivere la ricchezza vissuta. L’espressione meno inadeguata che ho trovato è stata: il pellegrinaggio è una delle occasioni più potenti per incontrare Dio. Potentissima perché semplice, diretta, più vincolata all’esperienza di un cammino lungo e faticoso che a molti ragionamenti astratti, che poco hanno a che vedere con la vita.
Si iniziava la giornata con le Lodi, poi in marcia, camminando in silenzio per la verdissima Galizia, in mezzo ai boschi di eucalipto, ai suoni della natura. Nel cuore, le intenzioni raccolte prima di partire: la salute degli amici, i loro familiari, il lavoro, la solidità della fede. Una sinfonia che ci aiutava a contemplare e a cercare Dio.
La sorpresa più bella sono stati i dialoghi. Camminando insieme ai ragazzi, abbiamo potuto toccare con mano che a poco a poco si apriva loro il cuore. I primi giorni abbondavano le domande del tipo: “Quanto manca?”, “Ci sono molte salite?”, “Possiamo fermarci un attimo?”. Lentamente, le domande sono cambiate: “Come faccio a sapere qual è il mio destino?”, “Com’è il Paradiso?”, “Veramente Dio ci ascolta quando preghiamo?”.
In testa al gruppo, avanzava una croce di legno portata a turno da uno dei ragazzi. Alcune persone, vedendo degli adolescenti camminare in silenzio dietro a una croce, si segnavano. Alcuni ci hanno ringraziato. I giovani pellegrini sono rimasti colpiti a loro volta dallo stupore della gente: più di una volta, in quei giorni, ho pensato che il mondo ha bisogno di questi segni che portano speranza.
Uno dei miei alunni, in un’assemblea, ha confessato di essere da molto tempo lontano dalla fede e di avere ricevuto i sacramenti solo per tradizione, in una famiglia non molto devota. Però, camminando, qualcosa si è mosso in lui: “Se il cristianesimo è quello che vedo” ci ha detto, “devo farmi un sacco di domande”. Una ragazza della parrocchia ha fatto molta fatica: già dopo il primo giorno aveva grosse vesciche, rimaneva indietro nel cammino. Però ha rifiutato di fare dei tratti in macchina: voleva offrire la fatica per un amico scomparso da poco. Mi ha colpito la grandezza del suo cuore: solo Dio può dare un senso alla morte.
Giorno dopo giorno, quasi tutti si sono voluti confessare. Un ragazzo voleva ricevere l’indulgenza per un familiare: “È il più bel regalo che gli possa fare”, ci ha detto.
Ogni giorno, alla fine della tappa, ci toccava il pranzo al sacco, una doccia e il bucato. Nel poco tempo libero, un po’ di riposo, qualche canto, qualche gioco, la messa e la cena. Con grande soddisfazione, abbiamo anche visto insieme la semifinale degli Europei…
Arrivati alla Cattedrale, siamo rimasti in silenzio aspettando la messa. Siamo tornati a casa con una certezza: la bellezza del Cammino (di Santiago e della vita) non è soltanto nella meta raggiunta, ma fa parte della strada vissuta con gli amici.
Stefano Motta è viceparroco di San Juan Bautista a Fuenlabrada e insegnante presso il Colegio Internacional Kolbe, a Villanueva de la Cañada (Spagna). Nella foto, con alcuni dei ragazzi partecipanti al pellegrinaggio a Santiago de Compostela.