Un’epoca luminosa per il papato
Non è facile valutare il momento presente della vita della Chiesa. Alcuni sono entusiasti, altri avvertono un certo disorientamento e faticano a trovare un filo che unisca le parole degli ultimi papi. Qual è la tua lettura di questo momento della storia della cristianità?
È una domanda impegnativa. Più che azzardare una risposta compiuta, provo a tracciare qualche linea di riflessione.
Anzitutto voglio sottolineare che gli ultimi secoli costituiscono probabilmente il periodo più glorioso della storia del papato. Mai epoca cristiana è stata luminosa come è stato il ’900 e come continua ad essere il 2000: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, poi la luce di Giovanni Paolo I, il lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora papa Francesco, sul quale si concentra l’attenzione di tutto il mondo. Ogni pontefice ha avuto un proprio posto e un proprio ruolo.
Un certo disorientamento può sorgere perché è difficile vedere il movimento della Chiesa innestato sul movimento del mondo. Ciò è dovuto al fatto che il movimento del mondo è troppo rapido. Veniamo da un’epoca di cambiamenti che ci sembravano rapidissimi, ma quelli di oggi sono addirittura vertiginosi. Tra l’altro il nostro mondo è profondamente unificato sotto il profilo economico, ma profondamente diviso dal punto di vista delle dinamiche politiche e culturali.
La paura del presente può nascere a causa della percezione di non sapere verso dove si stia andando. Ci sono momenti, infatti, nei quali tutto ciò da cui ci si sentiva sorretti sembra bruciato, mentre ciò che deve sostenere nel cammino in avanti sembra ancora non apparire – per questo è importante la vita delle comunità, che possono essere magari piccole, come ad esempio la Fraternità san Carlo, ma nelle quali le persone hanno rapporti primari e si sostengono reciprocamente –.
Se è difficile leggere i rivolgimenti che accadono nella storia del mondo, è più facile orientarsi nella storia della Chiesa. La lettura di un pontificato, però, ha bisogno di tempo. Davanti a una figura come quella di papa Francesco, ad esempio, dobbiamo attendere ancora qualche anno. Ci troviamo per la prima volta di fronte a un papa che non viene dall’Europa e ci occorre molto tempo per comprendere il suo linguaggio, la sua personalità e la sua sensibilità.
Abbiamo avuto un papa come Paolo VI, che ha saputo guidare la Chiesa dentro la tempesta del post-Concilio; abbiamo avuto un papa come Giovanni Paolo II, che ha ereditato una Chiesa divisa e ha saputo restituire alla gente la gioia e l’orgoglio di essere cristiani; abbiamo avuto un papa come Benedetto XVI, che ha dato alla Chiesa la coscienza della sua missione umanistica in cui fede e ragione, fede e scienza, fede e modernità non si escludono e non si combattono, ma si possono reciprocamente aiutare. Ora è arrivato papa Francesco, che ci indica un punto di lavoro molto importante. Egli ci dice che la nostra fede, in Europa, ha bisogno di aprirsi, perché si sta accartocciando su se stessa. Ha bisogno di aprirsi e di curvarsi sulle ferite dell’uomo.
Il progetto di papa Francesco è un progetto di grande rinnovamento, che potrà attuarsi anzitutto attraverso l’incontro della comunità ecclesiale con gli uomini feriti, abbandonati e stanchi, per portare ad essi il vigore della fede e la luce della carità.
Nel V secolo, quando i vandali arrivarono in Africa, l’umanità sembrava crollare. Tutti avevano la percezione che il mondo stesse irrimediabilmente finendo né si intravvedeva il sorgere di qualcosa di nuovo. Si cercava di capire di chi fosse la responsabilità della tragedia che si andava consumando e molti finirono per addossare le colpe ai cristiani. In realtà il mondo non stava precipitando verso la fine. Semplicemente si stava verificando un profondo rinnovamento della società umana, ed esso accadeva proprio in grazia di una presenza nuova della Chiesa e dei cristiani.
Ritengo dunque che il momento presente della storia della Chiesa vada guardato con gli occhi che aveva sant’Agostino quando ha scritto il De civitate Dei – La città di Dio, cioè con la coscienza che le epoche nelle quali qualcosa sembra finire sono anche le epoche nelle quali inizia qualcosa di nuovo.
Chinarsi sull’umanità ferita
Nelle omelie di papa Francesco ricorrono spesso le parole misericordia e carità. Come è vissuta, nella Fraternità san Carlo, l’esortazione del Papa a chinarsi sull’umanità ferita?
Quando mi interrogo sul significato della Fraternità san Carlo, mi rispondo sempre che essa è la carità di Dio che si curva sulla mia umanità malata per portare il beneficio della Sua cura. Penso che questo sia vero non solo per me, ma per tutti i miei fratelli. In un certo senso dovrebbe essere vero per ogni cristiano, perché la Chiesa è l’umanità di Gesù che si curva sulla malattia dell’uomo. Lo ha detto Egli stesso: Non sono venuto per i sani, ma per i malati (cfr. Mt 9,12).
Forse un aspetto della figura di Gesù che in questi ultimi secoli è stato messo in luce troppo poco è proprio il suo desiderio di guarire le persone. Nell’umanità di Gesù, che si manifesta a noi attraverso la presenza dei fratelli, Dio rivela il suo desiderio di guarire non soltanto le nostre malattie fisiche, ma soprattutto i nostri cuori.
Nell’umanità di Gesù, che si manifesta a noi attraverso la presenza dei fratelli, Dio rivela il suo desiderio di guarire non soltanto le nostre malattie fisiche, ma soprattutto i nostri cuori.
Se ci accorgiamo del fatto che Egli si prende continuamente cura di noi, se cresce in noi la consapevolezza del suo amore paterno, allora sorge in noi il desiderio di curvarci sugli altri, di incontrarli, di scovarli, di andarli a cercare. È un desiderio istintivo, che nel tempo diventa cosciente. Forse è questa la “Chiesa in uscita” di cui parla papa Francesco: per comprendere noi stessi abbiamo bisogno di andare a cercare gli altri; per capire la nostra persona dobbiamo curvarci sugli altri, sulle loro domande, sulle loro attese, sul loro bisogno di Dio. Penso che l’invito del Papa all’uscita e alla misericordia colga il cuore della nostra esperienza.
Mi sembra importante sottolineare che non possiamo aprirci ad alcuna esperienza di misericordia verso gli altri se noi non viviamo in prima persona l’esperienza di una misericordia ricevuta: nell’alleanza di Dio con l’uomo non è possibile scindere la fede dalla carità, il suo venire verso di noi e il suo interpellare la nostra libertà affinché andiamo noi stessi verso gli altri, lenendo le loro ferite.
Un’altra osservazione: l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, che incappa nei briganti e viene lasciato moribondo ai margini della strada è ogni uomo della storia, ma, allo stesso tempo, è anche Gesù (cfr. Lc 10,25-37). Il buon samaritano soccorre la persona di Gesù. Pochi giorni fa è stata canonizzata madre Teresa di Calcutta. Da lei impariamo che ogni vera azione di carità nasce nel momento in cui l’altro è guardato non solo come una icona di Gesù, ma come la realtà stessa di Cristo per noi. Non dobbiamo semplicemente vedere Gesù nei poveri, ma considerare che i poveri sono l’umanità di Gesù che ci raggiunge.
Il tutto donato da Dio
Intervistando alcuni sacerdoti della Fraternità san Carlo per il libro Anzitutto uomini, sono rimasta colpita dal fatto che in parecchi di loro esiste la pretesa, a volte esplicitamente espressa, di volere tutto. Dicono di non accontentarsi di una carriera, di affetti o di prospettive di guadagno, ma di volere tutto. Pensi che si tratti di un desiderio realistico oppure solamente di un sogno adolescenziale?
Entrambe le cose.
A settant’anni posso affermare che si tratta di un desiderio realistico, perché la vita che ho passato è stata realmente un tutto. È stata il tutto dell’incontro con Cristo, che è arrivato a me attraverso l’immensa apertura della mia vita provocata dall’incontro con don Giussani. Questo tutto però può diventare un sogno se non accettiamo che esso si realizza in modi diversi da quelli stabiliti da noi. La totalità della presa di Cristo sulla nostra vita avviene attraverso tappe successive, che noi non possiamo immaginare né preventivare.
Io, ad esempio, ero sicuro che avrei terminato la mia vita a Roma, come superiore della Fraternità san Carlo o comunque nella Fraternità. All’età di sessantasei anni ho dovuto cambiare casa e città per andare a Reggio Emilia, una delle poche città d’Italia dove non ero mai stato. Ho dovuto cambiare tipo di vita, perché esercitare il ministero episcopale è molto diverso che fare il superiore di una fraternità sacerdotale.
Ho imparato che il tutto che Gesù chiede e che Gesù dà ha bisogno del tutto della nostra disponibilità. Senza una disponibilità sempre rinnovata, il nostro cuore si accartoccia e inevitabilmente finisce per pensare che Dio domandi troppo.
Non possiamo mai dubitare della imprevedibilità di Dio. Quello che Egli ci chiede oggi è diverso da quello che ci chiederà domani. L’imprevedibilità è il volto del tutto. Il Mistero chiede sempre nuove strade e quindi, inevitabilmente, nuovo sangue e nuovi sacrifici.
Il Mistero chiede sempre nuove strade e quindi, inevitabilmente, nuovo sangue e nuovi sacrifici.
In questi oltre trent’anni di vita, la totalità con la quale ho visto vivere i seminaristi e poi i preti della Fraternità san Carlo è qualcosa che corrisponde profondamente al desiderio di vita che c’è nell’uomo. Tutti gli uomini e le donne desiderano qualcosa di totale, ma molti si ritrovano delusi, disingannati e sfiduciati perché identificano la totalità con una risposta parziale. La possibilità di una risposta totale esiste, ma essa risiede solo e soltanto in Dio. Non esiste altro “tu” che possa soddisfare il desiderio dell’uomo, solo Dio è all’altezza dei nostri migliori desideri. Egli, per sua bontà, si manifesta a noi attraverso dei “tu” umani, e anche attraverso gli alberi, i sassi, i quadri, le sinfonie musicali… ma i singoli “tu”, di per se stessi, non colmano interamente il nostro bisogno. Essi rimandano piuttosto a un’altra Presenza, alla realtà che sta in loro e oltre loro, al Mistero che solo può realizzare la nostra umanità bisognosa. Ogni presenza che incontriamo rimanda a un compimento, che sempre si deve rinnovare.
Le Missionarie, un dono inaspettato
Si parla spesso dei missionari della san Carlo e meno delle Missionarie…
Le Missionarie di san Carlo sono un bel regalo che Dio ci ha fatto, inaspettato, come sempre sono i doni di Dio. Personalmente non avrei mai pensato che potesse nascere una realtà di suore accanto alla nostra di sacerdoti. Certamente essa non è nata per merito mio. Non è nata nemmeno attraverso di me, bensì attraverso don Paolo Sottopietra e suor Rachele Paiusco.
La comunità delle Missionarie sta assumendo un rilievo sempre più importante, anche perché sono numerose – ormai una trentina – le persone che hanno chiesto di entrarvi e che stanno maturando lungo questa strada. Alcune hanno già fatto la professione semplice, altre sono già diventate suore professe.
La crescita numerica delle Missionarie è anche l’indice di una attesa che c’era nel Movimento, in Italia e in altre parti del mondo – diverse suore provengono dall’America Latina o dagli Stati Uniti –, l’attesa cioè di una comunità religiosa dedicata alla educazione delle persone e al servizio della Chiesa.
Penso che Dio, attraverso la nascita di questa nuova comunità, voglia educare i preti della Fraternità alla bellezza della vita femminile, alla bellezza e al dono che è la donna per la vita del mondo, in particolare per la vita della Chiesa.
Da subito, fin dal momento in cui sono nate, ho detto alle suore: “Voi portate dentro la nostra storia qualcosa che ci costituisce in quanto cristiani, ma che voi donne potete portare dentro di noi come sensibilità nuova”. Mi riferivo in particolare alla sensibilità per l’adorazione e per l’accoglienza che è tipica del genio femminile.
In questi anni la presenza delle Missionarie mi ha fatto molto riflettere sulla figura di Maria nella vita della Chiesa e sul significato della linea femminile. È importante riconoscere che al vertice della Chiesa c’è il “sì” di Maria, senza del quale non si può neppure comprendere la chiamata degli apostoli.
La paura e la vera accoglienza
Oggi, in Occidente, è molto diffuso un senso di paura, perché siamo spaventati dal pericolo degli attentati e temiamo di essere invasi. Come cristiani, come possiamo stare di fronte a questa paura?
A mio parere il crescere della paura nei nostri paesi europei è determinato soprattutto dalla debolezza della proposta politica. Per timore di perdere voti, non c’è nessun politico che abbia il coraggio di parlare di diritti e di doveri di coloro che accogliamo. Se vogliamo però essere veramente onesti di fronte a coloro che vengono a cercare nella nostra terra quello che malauguratamente nella loro patria non trovano più, dobbiamo avere il coraggio di aprire loro le nostre porte e anche il coraggio di dire con chiarezza quali siano, nei nostri paesi, i loro diritti e i loro doveri. Altrimenti la nostra non è vera accoglienza.
Chi arriva dall’estero deve accettare la fatica di entrare nella nostra lingua e deve conoscere le radici fondamentali della nostra cultura e della nostra esperienza, altrimenti la convivenza sarà difficilissima, forse impossibile; da parte nostra, allo stesso tempo, c’è il dovere di non cedere a una logica di sfruttamento – penso ad esempio al caso di tante badanti –. Purtroppo oggi nessuno parla di diritti e di doveri e si ha l’impressione di un’invasione senza regole.
In secondo luogo, la paura è accresciuta dagli egoismi. Come spesso ripete il cardinal Scola, non possiamo rifiutare ciò che sta accadendo, dobbiamo piuttosto intervenire per regolarlo. Siamo di fronte a un rivolgimento che riguarderà molti decenni ancora a venire.
Le attuali migrazioni dei popoli sono determinate anche dalla sete di potere e di denaro di noi occidentali. Pensiamo ad esempio al commercio delle armi: la mancanza di volontà di porre fine a tanti conflitti in Africa e in Medio Oriente è dovuta proprio al fatto che le guerre alimentano il commercio di armi. Tuttavia, pur senza sminuire le nostre responsabilità, non dobbiamo perdere la consapevolezza della grandezza della nostra storia.
In questo momento del cammino dell’umanità dobbiamo tenere assieme le ragioni dell’accoglienza e i doveri di coloro che accogliamo, la necessità di aprire le nostre porte e anche le caratteristiche della nostra identità e della nostra storia. Non è facile, soprattutto per l’assenza, o la povertà, di una guida politica in Europa, ma è questo il compito che ci attende.
La preziosità di ciò che abbiamo ricevuto
Come hai reagito di fronte alla morte di padre Jacques, il sacerdote ucciso a Rouen mentre celebrava la santa messa?
Quel giorno ero a Cracovia per la Giornata mondiale della gioventù e la notizia mi è giunta con qualche difficoltà.
Sono rimasto impressionato, ma non sorpreso. Il martirio, infatti, è una realtà sempre presente nella Chiesa. Non dev’essere augurato a nessuno, in nessuna epoca della storia, ma esso costituisce una realtà che accompagna costantemente la vita della Chiesa.
Don Giussani faceva spesso riferimento a un famoso dialogo fra san Pietro e Gesù. L’apostolo domanda: Maestro, abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa ne otterremo in cambio?, e Gesù risponde: Riceverete cento volte tanto (cfr. Mt 19,27-30). Quando citava questa frase, Giussani ne dimenticava sempre la fine e non diceva che Gesù aggiunge anche: Assieme a persecuzioni. Giussani tralasciava di proposito queste parole, poiché aveva capito che la seconda parte della frase ci avrebbe fatto evacuare o obliterare la prima. Egli, giustamente, preferiva fissare la nostra attenzione sulla promessa, che per un giovane è fondamentale. Gesù, però, non ha mai nascosto che tutta la storia della Chiesa sarebbe stata segnata da persecuzioni.
Forse, attraverso la durezza dei momenti che stiamo vivendo, possiamo riscoprire la preziosità di ciò che abbiamo ricevuto. Siamo stati comperati a caro prezzo, a prezzo del sangue di Gesù (cfr. 1Cor 6,20). La riscoperta di questa verità fa sì che la nostra vita non sia dominata dalla paura, bensì dalla certezza di una Presenza che ci accompagna.
Attraverso il travaglio di un parto, il Signore sta facendo nascere un momento nuovo per il suo popolo e per tutti i popoli del mondo.