La correzione fraterna è un’arte difficile ma necessaria, di cui oggi si parla sempre meno. Questo atto di misericordia è invece un elemento imprescindibile per una vera amicizia.

Nel 1963 si svolgeva a Gerusalemme il processo contro Adolf Eichmann, ufficiale delle SS, responsabile per l’organizzazione dello sterminio degli ebrei. Egli fu condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità. C’era un unico testimone tedesco al processo, il pastore protestante Heinrich Grüber. Costui apparteneva a un gruppo che, per ragioni di principio, si era opposto a Hitler ed era stato internato in un campo di concentramento a causa dei suoi tentativi di aiutare gli ebrei. Ai tempi della guerra, si era incontrato diverse volte con Eichmann e aveva parlato con lui. Ma, come emerse durante il processo, non aveva mai cercato di influenzarlo o di dirgli esplicitamente che ciò che stava compiendo era male.
Commentando questo interrogatorio, Hanna Arendt racconta che il prelato «disse che “i fatti sono più efficaci delle parole” e che le “parole sarebbero state inutili”» (Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme). E così, lo stesso Adolf Eichmann affermò alla fine del processo che nessuno gli aveva mai fatto notare l’immoralità del suo compito, neanche il pastore Grüber che, tutt’alpiù, aveva chiesto di alleviare le sofferenze ai prigionieri.
Ritengo che questo episodio sia paradigmatico della crisi morale della nostra epoca. Esistono delle persone che conducono personalmente una vita ineccepibile, come il pastore Grüber, che sono disponibili anche a pagare a caro prezzo le proprie scelte personali ma che non si sentono più in dovere, o in diritto, di rivolgere una parola al loro prossimo per rimproverargli il suo peccato morale. Tale tipo di rimprovero si chiama tradizionalmente “correzione fraterna”, una cosa di cui oggi si parla sempre meno.
Penso che le ragioni del venir meno a questo atto di misericordia nei confronti dell’altro siano sostanzialmente tre: la mentalità individualistica tipica della modernità; un certo “minimalismo etico”, secondo cui l’uomo non è più chiamato ad imitare la perfezione di Dio ma, più semplicemente, a osservare qualche regola minima indispensabile per la convivenza sociale; un sempre più diffuso relativismo etico di chi, non essendo più certo dei suoi valori morali, non è neanche disposto a proporli ad altri. Ma i contributi di alcuni grandi pensatori della storia occidentale mostrano come la correzione fraterna sia, nello stesso tempo, un’arte indispensabile e difficile. Questa pratica, che già le intuizioni di uomini come Aristotele, Cicerone, Seneca e Plutarco dimostravano essere accessibile all’uomo naturale, viene poi perfezionata in età cristiana. Se i filosofi antichi si dimostravano attenti soprattutto alla modalità della correzione, franca ma delicata, senza eccessi, per sperare di raggiungere un qualche risultato, i pensatori cristiani consideravano la correzione del fratello innanzitutto come un dovere che si ha nei confronti di Dio, per sostenere l’altro nel suo cammino di compimento. Agostino, Benedetto, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino e Francesco di Sales vedono nella correzione dell’amico la vittoria della misericordia sull’indifferenza.
Ma sottolineano anche come, prima di avventurarsi nella difficile opera della correzione, sia sempre necessario chiedersi il vero motivo per cui si compie tale atto: è buona e utile, infatti, solo nella misura in cui esprime un atto d’amore verso l’altro. Ecco perché Agostino dice che la virtù che protegge l’autenticità della correzione fraterna è l’umiltà. La consapevolezza di essere un povero peccatore aiuta chi deve correggere a trovare parole adeguate a penetrare nel profondo del cuore della persona da correggere, affinché possa crescere nel suo rapporto con Dio.
Per i cristiani, la santità non è uno scopo opzionale della vita. L’uomo vero è anzitutto l’uomo perfetto, l’uomo santo. Ma l’uomo, essendo peccatore e perfettibile, ha sempre bisogno degli altri per raggiungere la propria perfezione. Deve imparare a dipendere da altri, deve accettare di dipendere da altri. Lo dice in modo paradigmatico il primo dei grandi padri del deserto, l’abate Antonio, per cui la disponibilità a lasciarsi correggere assurge a sintomo di vera umanità. A lui si attribuisce il seguente detto: «Uomo può essere detto o chi è ragionevole o chi sopporta di essere corretto. Ma l’incorreggibile va chiamato selvaggio, perché il suo stato è proprio dei selvaggi» (Antonio Abate, Avvisi sull’indole umana e la vita buona).

 

(Nella foto, da sin. Giuseppe Cassina e Tommaso Pedroli, missionari a Fuenlabrada, Spagna). 

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