Negli anni ’80, a Inveruno (Milano), era piuttosto chiaro che Dio c’era. Semmai il problema era capire dove andarlo a trovare. Certamente partivo avvantaggiato in tale ricerca: nella mia famiglia la fede non era parlata, discussa, o particolarmente scandagliata. Era semplicemente vissuta. Nessuno mi ha mai intimato di centrare la mia esistenza sulla fede in Cristo. Semplicemente, questa era la vita che si viveva, senza particolari velleità ascetiche o contemplative. All’oratorio mi hanno poi insegnato le basi.
Insomma, la società era ancora cristiana e io, a undici anni, ero anche piuttosto convinto. Molti dei miei amici, però, non lo erano. E un po’ avevano ragione, perché era tutto vero, ma tutto troppo implicito. Ma a quel punto, scegliere fra le fede e l’amicizia era impossibile, così sono rimasto pietrificato nel mezzo. Finché non ho incontrato Gs, a Busto Arsizio.
Resistenza passiva
Non che ignorassi del tutto cosa fosse Comunione e liberazione, solo il problema era – ancora – dove, o, meglio, con chi vivere una vita del genere. Ho iniziato, in particolare con un paio di amici: sapevamo che ciò che avevamo incontrato era tutto, e allora cercavamo di vivere tutto cercando il nesso con Gesù. E infatti eravamo piuttosto ridicoli: come si fa, a quindici anni (ma anche a trentatrè)? Intanto, però, iniziavo a riconciliare amicizia e ideale, l’uno a tener su l’altra. E, pian piano, riguadagnavo tutto ciò che molti miei coetanei stavano perdendo. «Niente si perde in Colui che non si può perdere»: questa promessa di sant’Agostino ci ha letteralmente fregato. Sapevamo, in maniera chiara e distinta, che qualsiasi direzione avrebbero assunto le nostre esistenze, non avremmo potuto prescindere dalla forma di vita che ci aveva così potentemente investito: la lotta spalla a spalla per essere santi, cioè amici di Cristo e l’amicizia fra gli uomini come luogo vivo del rapporto col Signore.
Mi sono iscritto a Medicina con una sola idea: occorre portare a chi soffre l’annuncio della Risurrezione e non sa nemmeno perché. Ma, pur trovandomi a studiare con gente splendida, mi sono ri-pietrificato per i primi due anni. Un segreto timore di perdere qualcosa si è impossessato di me. E allora mi sono dato alla “resistenza passiva” a Dio che mi chiamava. L’idea del sacerdozio era viva in me, ma non accettavo che il Signore potesse disporre di me con l’ubriacante libertà che contraddistingue il Suo stile. Dei grandi amici mi hanno sostenuto e sopportato in quegli anni di fastidiosa indeterminatezza, e a un certo punto mi sono arreso. Ho capito che alla mia vita non mancava nient’altro che l’umiltà e la docilità di cuore di chi riconosce che il padrone della storia è un Altro. Iniziando dall’accettare che la comunità del Clu dell’ospedale Sacco a Milano fosse casa mia (fatto che non ammettevo, nella più ampia cornice dalla mia personale guerriglia contro Dio). Questa piccola, micragnosa ammissione, ha comportato un’escalation nella mia vicenda personale.
I romanzi di Marshall
Da quel momento tutto comincia a girare velocissimo. Un mio compagno di studi, dopo la laurea, ci comunica che sarebbe entrato nella Fraternità san Carlo. Penso passerò tutta la vita a domandarmi cosa allora si sia smosso in me. Forse vedere una persona così vicina fare un tale passo mi ha semplicemente dimostrato che quella strada era possibile. La sera dopo gli dico che l’avrei seguito dopo la mia laurea, due anni dopo. Alla terza ripetizione si convince che non scherzo. Torno a casa cercando di fingere indifferenza a riguardo – ma i miei capiscono subito tutto. Inizio il rapporto con la Fraternità san Carlo. Il perché è semplice. Leggendo i romanzi di Bruce Marshall mi ero imbattuto in figure di preti eroici, ma al contempo soli. Non era quella la forma di vita che mi aveva avvinto a suo tempo. Dovevo forse rinunciare ancora all’amicizia, in favore di un ideale che rischiava di diventare nebuloso? Ma fedele è Dio, e quanto Egli promette, vuole anche portarlo a compimento.
Il 19 febbraio 2005 incontro a Milano don Massimo Camisasca, che aveva appena detto addio a don Giussani. E io passo in consegna da un padre a un altro.
Dopo otto anni nella Fraternità posso affermare che la casa che ho sempre cercato, dove l’amicizia con il Signore e con gli uomini è non solo possibile, ma il centro stesso della vita, c’è. In essa è possibile recuperare tutto ciò che rende grande e bella l’esistenza. In essa io sono voluto bene con un’intensità e una libertà infinite (ed è raro che si diano le due cose assieme). Ed è questa la vita che sognavo da bambino.