Un sguardo su ciò che significa essere missionari a Taipei: insegnare la gioia della fede.

Il contesto in cui ci troviamo a operare a Taiwan è caratterizzato da un’ignoranza pressoché totale dei contenuti della fede cristiana, a partire dai suoi presupposti storici (il fatto accaduto 2000 anni fa), religiosi (il Dio unico) fino alla sua portata etica e sociale. Non possiamo dare niente per scontato. Dobbiamo essere molto semplici, concreti, e soprattutto ripetere spesso le stesse cose, sperando che qualcuno pian piano si apra alla novità radicale che il cristianesimo porta nella vita.
Qui si può cadere nella tentazione di un certo lassismo o semplicismo nella proposta cristiana, spesso anche nel catecumenato, come se fosse più opportuno presentare alle persone solo una parte della verità (la più comoda o la più immediatamente comprensibile), concependo così la fede come un fardello che, con i suoi contenuti e le sue regole, complica la vita invece di esserle d’aiuto.
Al contrario, le persone che incontriamo desiderano proprio la verità. Esse hanno bisogno di distinguere il bene dal male, di attribuire il nome giusto e il vero valore alle cose.
Faccio un paio d’esempi. Il primo, più drammatico: una persona cattolica mi ha confidato piangendo una circostanza molto grave che stava vivendo, che però non riusciva a vedere come un peccato, come una cosa sbagliata, e non sapeva che cosa fare. Io mi sono sentito in dovere di dirle che quello che faceva era senza dubbio un peccato, e anche grave, bastava guardarne le conseguenze: sofferenze per lei e per le persone vicino a lei. Le ho detto che per sapere come agire, prima avrebbe dovuto comprendere ciò che stava vivendo, e quindi porsi delle domande concrete sulla sua esperienza: questa situazione mi rende felice? È un aiuto per me, per le persone che mi stanno accanto? Alla fine del nostro colloquio, ha preso la risoluzione di dare fin dal giorno dopo una svolta netta a quella situazione perché in quel momento tutto era diventato più chiaro.
Il secondo esempio: una domenica dovevo preparare l’omelia sul vangelo degli invitati a nozze. Leggendo l’ultima parte in cui il padrone manda via quello senza l’abito da festa, ho pensato che, dopo alcune premesse sull’eucarestia come il banchetto a cui ogni giorno il Signore ci invita, avrei potuto dire ai miei parrocchiani le condizioni necessarie che la Chiesa indica per poter ricevere la comunione. Ero indeciso sull’opportunità dell’intervento, non volevo che qualcuno si sentisse ferito o giudicato.
D’altra parte, però, penso che tanti parrocchiani non ricevano il sacramento dell’eucarestia con la giusta consapevolezza. Comprendere meglio Chi riceviamo nella comunione era il fine ultimo del mio intervento. Ho parlato quindi delle tre condizioni (pensare e credere Chi si riceve, l’assenza di peccato grave e il digiuno un’ora prima) dandone le ragioni e portando esempi concreti. Ho poi aggiunto alcune indicazioni pratiche su come accostarsi all’eucarestia nel modo più rispettoso.
Subito dopo la messa e nei giorni a seguire, diversi parrocchiani mi hanno ringraziato per la chiarezza e per i contenuti dell’omelia. Ho pensato, allora, che non dobbiamo avere paura della realtà e della verità, ma che al contrario una parte essenziale della nostra missione di sacerdoti e nello stesso tempo una grande forma di carità è proprio permettere alle persone di accedere alla verità, anche nei suoi contenuti specifici, per far fare loro esperienza della gioia e della libertà che vengono dal vivere con verità il reale che ci viene costantemente donato.

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