Ripensandoci oggi, mi pare chiaro che in quel primo momento dell’incontro con don Gius avvenne lo scontro inevitabile di due mondi: il cristianesimo e il mondo ormai pagano e a esso assolutamente estraneo e ostile in cui tutti noi vivevamo.
In pochi istanti si montò tutta la drammatica sfida di cui avremmo vissuto per anni, messi davanti alla scelta pro o contro Cristo. Fummo improvvisamente lanciati dentro un orizzonte di vita assolutamente nuovo e inedito, indipendentemente dall’esito verso cui ci saremmo poi incamminati.
I miei compagni e io avevamo avuto, come ho accennato, una esperienza piuttosto negativa d’insegnamento di religione al ginnasio.
La proposta di don Gius era diversa: la religiosità come pienezza dell’umano, come risposta a tutte le esigenze dell’esistenza e, perciò, come ultima implicazione della vita in tutta la sua ricchezza.
Ci invitava a fare l’esperienza della fede ben oltre il fatto di registrarne intellettualmente i contenuti. Ci chiedeva un nuovo uso della ragione e dell’intelligenza: non più applicata a formulare schemi e catalogare nozioni (come quasi sempre i professori esigevano, ciascuno nella propria materia), ma aperta alla scoperta del mistero dell’essere, alla trasparenza del senso ultimo dell’umana esperienza.
Perciò l’implicazione più ovvia del discorso avviato in classe era che la scuola divenisse compagnia di vita, verifica e scoperta vissuta insieme – maestro e discepoli – secondo la dinamica propria del Vangelo: una amicizia aperta al destino, cioè a Cristo. Su questa base era allora rivista la nozione di Chiesa: da fredda e distante struttura costituita era riscoperta come costruzione in atto in cui ognuno di noi si sentiva personalmente coinvolto.
E ogni particolare dettaglio della storia della Chiesa era rivisto nel suo senso concreto, come parte essenziale di quella esperienza personale e, al contempo, comune. L’insegnamento di don Gius era cosparso di un’infinità di riferimenti alle esperienze più geniali dell’umanità di ogni tempo, cultura, estrazione: tutto concorreva ad aprire l’orizzonte sul senso ultimo e definitivo, su Cristo.
La religione, una volta per noi sinonimo di oscurantismo e bigottismo, si rivelava il vero luogo dell’apertura. Durante le sue lezioni, don Gius si preoccupava di smascherare e denunciare l’aspetto preconcettuoso e fanatico della cultura atea e anticlericale allora in voga, la sua enorme ignoranza, la sua chiusura mentale e la sua disumanità. Venivano al contrario messe sempre più in luce la sapienza, l’apertura e l’umanità del cristianesimo.
L’insegnamento di don Giussani in quei tre anni fu essenziale e lineare: Dio, Gesù Cristo, la Chiesa. Iniziava sempre la lezione annunciando la sua tesi e illustrandola con alcuni testi e fatti culturali notevoli (citazioni di autori geniali di variatissime estrazioni: Claudel, Dante, Pascoli, Kierkegaard, Solov’ev, la musica russa, Manzoni, Leopardi, Newman, Péguy…). La lista era ricchissima, quasi sempre sorprendente e sconcertante.
Ci diceva che aveva imparato a fare questi accostamenti dai suoi maestri in seminario, don Carlo Colombo e don Giovanni Colombo.
Poi c’erano le domande o gli interventi nostri: il dibattito spesso era acceso e quasi sempre durissimo, data la retroguardia dell’ala di Miccinesi sempre sulla breccia.
Alla fine (che era quasi sempre un armistizio in attesa del prossimo capitolo della vicenda), per cinque minuti don Giussani esigeva che tutti scrivessero in un quaderno, sotto sua dettatura, il concetto di base che aveva esposto e che poi doveva servire da confronto per qualsiasi discussione, divergenza o ripresa dell’argomento in altra sede o con altri professori, soprattutto con Miccinesi. In questi istanti di dettatura – fatto di per sé assolutamente inedito nella pedagogia degli altri professori – eravamo messi di fronte all’oggettività del cristianesimo precisa e ineludibile, al pensiero del maestro non sottoponibile alle nostre distorte interpretazioni.
Egli insisteva che la verità è adeguazione della mente alla realtà oggettiva. Era certamente il momento più educativo della lezione. Ascoltavamo e scrivevamo in silenzio tutte quelle verità che per noi erano quasi sempre novità assoluta; così l’eco della lezione permaneva anche in coloro che per qualsiasi motivo non erano d’accordo, obbligandoli a confrontarsi con l’oggettività del cristianesimo.
Se qualcuno ne voleva con sincerità sapere di più – cosa non rara, dati gli argomenti sempre vivi e scottanti – don Giussani invitava ad andarlo a trovare a casa sua dopo la lezione per parlarne.
Io stesso andai numerose volte in quei tre anni di liceo: prima nel suo appartamento di fronte alla chiesa di viale Lazio dove era coadiutore, e poi in viale Brenta.
Furono sempre momenti indimenticabili, in cui tutta la capacità di accoglienza, di comprensione e di acutezza educatrice di don Gius ebbero modo di spalancarmi con grande chiarezza l’orizzonte vero della fede cristiana all’interno di un bellissimo rapporto personale, fatto soprattutto di discrezione e verità. Alla fine della conversazione, poi, mi faceva sentire al giradischi la bellezza della musica corale russa o di un pezzo di Palestrina…
Don Giussani mi fece perdere subito tutto il preconcetto accumulato che avevo contro i preti, secondo la cultura prevalente. Scoprii la gioia di essere discepolo di un vero maestro.
Posso dire in sintesi che era un grande educatore per la non comune capacità che aveva di trasmettere a tutti noi la grandezza incomparabile di Cristo, del cristianesimo e della Chiesa, e di aiutarci a farne esperienza quotidiana all’interno della realtà concreta della scuola.
(Nell’immagine, uno degli scatti di Elio Ciol, pubblicati nel libro, che raccontano momenti della vita di Gs negli anni Cinquanta – Foto © Elio e Stefano Ciol )