Sono arrivato a Milano un anno fa, dopo dieci anni di missione in Spagna nella parrocchia di Fuenlabrada, nei pressi di Madrid. Nell’ottobre scorso ho iniziato il mio ministero di cappellano dell’università, al Politecnico, presso i due campus del distaccamento della Bovisa.
Milano è la città dove sono nato e dove sono vissuto fino ai venticinque anni. La lasciai nel 1987 per andare in seminario a Roma. Poi, dal 1991 seguì il tempo della missione. Prima in Messico, poi a Grosseto, poi di nuovo a Roma e infine in Spagna. A settembre, appena rientrato nella mia città, pensavo a san Paolo e ai suoi viaggi missionari, sballottato di qua e di là nella ricerca continua di annunciare Cristo a tutti, nei luoghi più disparati.
A Milano devo tanto (la mia infanzia, la mia adolescenza, i primi passi nella fede), ma mi sono chiesto che cosa volesse il Signore con questa storia strana, questo ritorno che mi faceva vivere. Il primo giorno in cui sono andato in università, don Alberto, il cappellano che mi aveva preceduto per ben 14 anni, mi ha presentato una ventina di persone che partecipavano assiduamente alla sua messa settimanale. Un “piccolo gregge”, ma già una grande grazia dentro il mondo universitario, dove spesso lo studio è oggetto di vendita e di consumo e gli studenti possono apparire come estranei usufruttuari, una realtà dove è facile vivere di passaggio senza fare caso a ciò che conta davvero. Quel piccolo gregge era già una promessa: Gesù vuole parlare anche a questi uomini.
Una «cattedra» a ingegneria
Che senso aveva la mia storia? Cosa voleva il Signore da me? Con queste domande sono andato a celebrare la mia prima messa, nella Facoltà di Ingegneria. Lì non c’è la cappella (mentre c’è a Design, nell’altro campus). Per celebrare bisogna, perciò, ogni volta richiedere un’aula, “incastrando” la santa messa tra una lezione e l’altra. Sono entrato nell’aula dove mi aspettavano i ragazzi del coro della comunità del Clu, gli universitari di Cl. Ho estratto dalla mia borsa la tovaglia che ho steso sulla cattedra e ho incominciato a preparare l’occorrente per la celebrazione. Ho chiesto a uno dei ragazzi: «Quante ostie devo preparare?». «Oggi verranno quasi tutti» – mi dice – «Centoventi». «Chissà cosa avranno in testa?» – penso – «Loro non sanno niente di me!». Guardando i banchi dell’aula disposti in salita, mi tornano in mente tanti momenti della mia storia missionaria: una sosta, quasi nel deserto, sulla sierra, in Messico, mentre attendevo l’autobus per tornare a Miahuatlhan. Poi gli studenti delle superiori di Gs, a Grosseto: quel giorno che eravamo tutti sul battello, io suonavo la chitarra e loro cantavano all’unisono (erano quasi duecento). Penso ai tanti sacerdoti e amici della Fraternità che ho visto crescere come seminaristi. Infine, agli amici della Casa di Sant’Antonio a Fuenlabrada, ai senza tetto della casa di accoglienza, ai ragazzini delle medie della parrocchia che ora sono grandi…
Missionario è colui che lascia che la propria storia entri nella grande Storia che il Signore scrive.
Perfino Milano è terra di missione
Penso alla mia storia e a dove mi trovo. E mi ritorna la domanda: «Cosa ci faccio qui?». Me la ripeto con un’aggiunta altrettanto necessaria: «Signore mio, cosa ci faccio qui?». In quel momento, guidati dai membri della segreteria, entrano in silenzio i ragazzi per la messa e si siedono ordinatamente nei banchi. Centoventi, quasi tutti ragazzi, poche ragazze, tutti in piedi, quasi un battaglione silenzioso.
Una volta entrati tutti, Marco, che guida il coro, prova i canti con loro e, vedendoli un po’ distratti, dice questa frase che mi si pianta immediatamente nel cuore: «Mettete la testa in quello che cantate. Non capite che cosa sta succedendo qui? È la prima volta che si celebra una messa così in università, qui in Bovisa, non capite? Per quanti anni lo abbiamo atteso? È la prima volta e noi ci siamo, siamo presenti a questo avvenimento, noi stiamo facendo la storia della Bovisa, anzi stiamo facendo la storia!».
Rimango così colpito da quelle parole, da riprenderle nella mia prima omelia: siamo qui per fare la storia. O meglio, la storia la fa Gesù con le nostre storie personali. La storia la fa Gesù, ma si serve del nostro sì, dei nostri sì, anche quando questi sono ancora inconsapevoli, anche se non abbiamo ancora ben capito che cosa vuole fare di noi. Anche se ciò che facciamo è fuori da ogni nostra immaginazione o progetto.
Ora che sta per iniziare il secondo anno di corso, che i due uffici della cappellania sono sempre pieni di ragazzi che cercano un momento di consiglio, di confronto o che chiedono la confessione (nell’altro campus sono un centinaio), ora che alle quattro messe settimanali che celebro è sempre presente un bel gruppo di fedeli, tra i quali ci sono sia i ragazzi sia i lavoratori dell’università; adesso posso dire che perfino Milano è terra di missione, io che da lì per la missione sono partito. Posso affermare ancora una volta, per esperienza diretta, che il bisogno dell’uomo non conosce limiti geografici o culturali.
E un missionario è colui che lascia che la propria storia entri nella grande Storia che il Signore scrive. Un missionario è semplicemente uno che dice di sì per scoprire di nuovo la Storia di Dio dentro la propria vita, dentro la propria storia.