La vita non è un talent show

La realizzazione della vita coincide con il successo lavorativo? Il lavoro si gioca tutto nella valorizzazione dei propri talenti o c’è qualcosa di più? Una riflessione di don Antonio Anastasio

Odoardo Borrani, «La raccolta del grano a Castiglioncello» part., 1867.

Nei numerosi colloqui che quotidianamente svolgo con i giovani emerge sovente la centralità del problema del lavoro. Tra i ragazzi che incontro, oltre agli universitari, ci sono molti neolaureati e giovani che hanno da poco iniziato l’avventura lavorativa. Nell’esperienza di quasi tutti la realtà del lavoro sembra scontrarsi con un’immagine della propria realizzazione personale. C’è chi dice che nel lavoro non impara niente di nuovo, chi si sente costretto a fare una quantità di ore straordinarie spesso non pagate perché “i colleghi fanno così e se non mi adeguo verrò licenziato”.
C’è poi un numero sempre più grande di persone che vivono con disagio il rapporto tra il lavoro ed il proprio cammino di compimento affettivo. Sorgono domande come questa: “Se mi offrono un lavoro a Parigi ed io e la mia fidanzata non possiamo mai vederci, perché dovrei rinunciare io al mio lavoro? Non potrebbe farlo lei?”. Oppure, come ha detto una ragazza in un incontro: “Il mio capo mi aveva appena nominata responsabile di un grande settore, ma purtroppo, anche se sono sposata da poco, sono rimasta incinta”.

Durante un incontro con coppie di giovani lavoratori, ricordavo loro come la vocazione nella vita consiste innanzitutto nel fatto che Gesù ci ha scelti: la vocazione è il rapporto con lui. Questo rapporto pervade tutta la realtà, ma si fa concreto attraverso una compagnia, un luogo affettivo, segno della sua preferenza per noi, che il Signore ci dona affinché possiamo riprendere coscienza quotidianamente del rapporto con Lui. Insomma il lavoro è importante, ma non esaurisce la realizzazione di sé: ne è certamente un elemento importante, ma non il primo. Al contrario, la società in cui viviamo, malata di narcisismo e di individualismo, spinge i giovani a credere che la propria realizzazione si giochi tutta nel lavoro.
In occasione di una cena, un giovane amico ha formulato un’interessante obiezione: “Ci sono, è vero, dei rischi a fissarsi solo sul lavoro. Se però Dio mi ha dato dei doni naturali, non è perché io li realizzi? In fondo è il significato della parabola dei talenti!”. Tuttavia i talenti a cui si riferisce la parabola non corrispondono a ciò che spesso si pensa. La cultura moderna – complice anche una lettura religiosa superficiale – ha mutuato questa parola dal vangelo sottolineandone il riferimento ai “doni naturali”. In realtà i talenti di cui parla Gesù non rappresentano le capacità che Dio ha dato a ciascuno, ma le responsabilità o i compiti che a ognuno vengono affidati. Infatti, nella parabola, si dice che l’uomo in partenza per il viaggio diede a chi cinque talenti, a chi due, a chi uno, secondo le sue capacità: le capacità naturali, come si vede, precedono la distribuzione dei talenti.

Ha detto in proposito Benedetto XVI: «Il “talento” era un’antica moneta romana, di grande valore, e proprio a causa della popolarità di questa parabola è diventata sinonimo di dote personale, che ciascuno è chiamato a far fruttificare. In realtà, il testo parla di “un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (Mt 25,14). L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso, i servi sono i discepoli e i talenti sono i doni che Gesù affida loro. Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il “Padre nostro” – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi» (Angelus, 16 novembre 2008).
La persona, dunque, si compie portando nel mondo il dono della conoscenza di Cristo che ha cambiato la sua vita. Oggi tutto è complicato però dall’individualismo e da una certa cultura che potremmo definire del “talentismo”, ben rappresentata dai numerosi spettacoli televisivi in cui il soggetto si deve presentare davanti a pochi esperti dimostrando che, con molto esercizio e studio, ha sviluppato una certa capacità naturale e quindi vale qualcosa… oppure no, a seconda dell’impressione suscitata nei giudici. L’obiettivo è sentirsi dire dagli esperti: “Tu sì che vali!”.

La persona si compie portando nel mondo il dono della conoscenza di Cristo che ha cambiato la sua vita.

Com’è facile per i giovani oggi cadere nell’inganno suscitato da questa mentalità! Davvero valgo qualcosa solo perché lo dicono quattro esperti? Il mio valore sta nel segno che lascerò nel mondo con una mia particolare capacità? E quando sarò vecchio, o malato, e non potrò più far valere la mia capacità? Che cosa resterà? Tutto ciò mi costringe a vivere sempre al massimo livello della mia espressione: si chiama sindrome da prestazione ed è la condizione permanente dell’ansia e della depressione. Insomma, un grande inganno.
Il valore della persona consiste nell’essere stata voluta da Dio da sempre. Ognuno dei nostri giovani è stato prediletto attraverso quei talenti, quei doni di cui parla Benedetto XVI. Se non ne siamo orgogliosi, è perché pensiamo siano più decisive le capacità che abbiamo in testa noi che non i doni concreti che ci ha fatto il Signore. In realtà, quelle capacità ci ricattano, ci governano se non ci ricordiamo che Lui ci ha già amati. Niente ci potrà mai togliere il suo amore, nessuna prestazione inadeguata e neanche i nostri insuccessi sul lavoro.

La realizzazione di sé consiste nel rapporto radicale con Gesù e la vocazione si realizza innanzitutto nel luogo affettivo dove la memoria di questa preferenza di Cristo rinasce, senza la quale non possiamo vivere. Questo luogo affettivo è la compagnia vocazionale: la moglie o il marito nel matrimonio, la casa dei fratelli per noi sacerdoti della San Carlo o per i consacrati che vivono assieme. Altrimenti, come dice perentoriamente Gesù: A che serve guadagnare il mondo intero (i tuoi sogni, il successo, i soldi, la carriera) se poi perdi te stesso?

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