La vocazione familiare

Quaderno 16 – Corresponsabilità nelle decisioni, unità di giudizio nell’educazione dei figli, necessità del sacrificio: la vita della famiglia ha bisogno, oggi più che mai, di un centro: la memoria di Cristo.

Previati Georgica
Gaetano Previati, Georgica, 1905, Musei Vaticani (Roma)

Non è facile costruire una famiglia nella società in cui viviamo. Non a caso, una domanda che spesso mi viene posta è come mantenere un equilibrio tra i doveri del lavoro e la sacralità della famiglia. Penso che occorra anzitutto stabilire delle priorità, anche se non devono essere priorità esclusive. Nessuno infatti può pensare che la modalità espressiva della propria vita sia esaurita dalla famiglia, come nessuno può pensare che tale modalità espressiva sia esaurita dal lavoro. Stabilire una priorità assoluta, di fatto, significa morire. Purtroppo è quello che accade ai più. Molte persone elevano non tanto la famiglia, quanto gli affetti, a orizzonte totale della propria esperienza e si ritrovano così a correre da un amore all’altro, da una ricerca affettiva all’altra. Per altri, invece, il tutto è costituito dal lavoro e questo porta alla fine di ogni rapporto affettivo. Si giunge addirittura a teorizzare che i legami di amicizia e di amore non debbano essere coltivati. Talvolta i giornali raccontano di donne incinte che perdono il posto di lavoro a causa della gravidanza. Le loro vicende rappresentano l’estrema espressione dell’assoluta priorità che la nostra società attribuisce al lavoro rispetto agli affetti, soprattutto agli affetti duraturi. In ogni caso, anche tralasciando i casi limite appena descritti, è chiaro che l’equilibrio è difficile da trovare.
Per stabilire una giusta gerarchia di priorità, che non escluda alcun aspetto dell’umano, occorre che ciascuno si domandi quale sia la propria vocazione. Tale domanda, che può apparire opprimente, è in realtà liberante. Ogni vocazione, infatti, è inclusiva, in quanto abbraccia e valorizza tutte le inclinazioni dell’uomo. Ogni vera vocazione porta con sé tutte le altre vocazioni di una persona. Qual è dunque la vocazione che vogliamo vivere? Per chi si è sposato, la vocazione primaria è costituita dal matrimonio e tutto il resto della vita dev’essere giudicato alla luce della famiglia. Provo ora a delineare alcune indicazioni pratiche che aiutino ad attribuire il giusto privilegio alla vocazione familiare.

Decidere assieme

Anzitutto mi sembra importante imparare a decidere assieme alla propria moglie o al proprio marito quanto tempo dedicare al lavoro. La modalità e la misura dell’impegno nel lavoro non possono essere decise autonomamente, anche se non è necessario che si arrivi a valutare insieme tutti i particolari. Il matrimonio, infatti, è una comunione, e le questioni che riguardano la famiglia devono essere affrontate dentro il rischio di una comunione vissuta. Ciò non vale soltanto in campo professionale, ma anche per la scelta della scuola alla quale iscrivere i figli, piuttosto che per i metodi educativi da seguire, per i permessi da concedere o da negare, per l’automobile o la cucina da acquistare. Le decisioni che costituiscono il tessuto della quotidianità di una famiglia possono essere motivo di maggiore vicinanza oppure di maggiore lontananza, occasione di confronto e di dialogo oppure causa di divisioni e di problemi. Occorre dunque imparare a decidere assieme, ascoltandosi, accogliendosi e paragonando le proprie ragioni con quelle dell’altro.

Là dove ci sono, è bene che anche i figli entrino nel progetto della famiglia. Un marito e una moglie devono imparare a prendere le proprie decisioni anche pensando e guardando ai figli. Per me, in questi anni, è diventato sempre più chiaro che i genitori che non hanno tempo per i figli preparano per essi un avvenire molto difficile. È fondamentale che un padre trovi qualche ora per giocare con il proprio bambino. I genitori devono cercare le occasioni per discutere con i figli, per stare con loro, per ridere e piangere assieme.

Un altro aspetto importante è il rapporto tra famiglie. Bisogna fare attenzione a non isolarsi. La tendenza a concepirsi da soli è in fondo un risvolto dell’esclusione di Dio dalla propria esistenza. Infatti Dio viene estromesso dalla vita quando ci si illude di poter camminare da soli, quando si ritiene di avere forze e capacità sufficienti per raggiungere la propria realizzazione, come singoli, come coppie e come nuclei familiari, e questa è esattamente la ragione per la quale si tende a tagliare i rapporti con altre famiglie. Non isolarsi non significa decidere tutto assieme agli amici né, tantomeno, demandare ad altri le proprie responsabilità. C’è però un cammino di crescita che dev’essere portato avanti come comunità. Per questo occorre anche accettare di lasciarsi guidare da qualcuno che abbia una coscienza più viva dell’ideale al quale si tende, magari da una famiglia tra le altre.

La preghiera

Decidere assieme non vuol dire soltanto prendere sul serio il rapporto con il proprio marito o con la propria moglie, ma anche, e più ancora, tenere conto di Dio. Nel decidere, dobbiamo ricordarci che Dio è con noi. Una delle cause principali della fragilità della famiglia va ricercata nel fatto che Dio è stato escluso, se non in modo teoretico, perlomeno dal punto di vista pratico. Si tende a pensare che Dio non c’entri o, comunque, che la sua presenza non sia efficace e non abbia a che fare con le decisioni della vita. Al massimo viene preso in considerazione quando si riflette sulla partecipazione alla messa della domenica o sull’opportunità di coltivare altre pratiche religiose.
Una strada per permettere a Dio di entrare nella concretezza delle nostre giornate è costituita dalla preghiera. Una famiglia che non prega molto difficilmente potrà vivere una reale unità e un’autentica comunione, molto difficilmente potrà affrontare con speranza i problemi che si presenteranno. La memoria di Cristo nella vita è fondamentale. Giussani ha parlato tante volte di tensione alla memoria di Cristo. Questa sua espressione indica che la memoria di Cristo è una realtà che vive in noi nella misura in cui la recuperiamo continuamente. Poi, nel tempo, essa può diventare uno sfondo permanente nella nostra giornata.

Una famiglia che non prega molto difficilmente potrà vivere una reale unità e un’autentica comunione, molto difficilmente potrà affrontare con speranza i problemi che si presenteranno.

Alla mattina potremmo recitare un salmo, o almeno alcuni versetti; durante la pausa pranzo potremmo fermarci un momento in chiesa; a metà del pomeriggio, oppure alla sera, potremmo leggere qualche brano che favorisca la crescita della nostra fede. Occorrono, infatti, dei momenti di memoria esplicita. Forse, per riprendere coscienza di noi stessi e del nostro rapporto con il Signore, basterebbe fermarsi ogni tanto a guardare la foto della propria moglie o del proprio marito, oppure rileggere i versi di una poesia capace di allargare il nostro cuore verso l’infinito. L’importante è che la nostra giornata abbia momenti nei quali la memoria di Cristo venga vissuta. Se ci accorgiamo di sperimentare una certa lontananza da Dio, tali momenti devono diventare più frequenti. Giussani diceva che la memoria di Cristo deve diventare abituale. Affinché ciò accada, la preghiera deve cominciare a essere un’azione ripetuta con regolarità. Se la frequenza della nostra preghiera è molto diluita, è quasi impossibile vivere una memoria di Cristo permanente. Non è un caso che la Chiesa suggerisca di recitare le lodi al mattino, l’ora media a metà giornata, i vespri alla sera e la compieta prima di andare a dormire, non soltanto ai preti – per i quali il breviario è obbligatorio –, ma anche ai laici. Nel tempo, infatti, moltiplicando le occasioni esplicite di memoria, la consapevolezza della presenza di Cristo tende a diventare abituale, al punto che anche nel volto di un bambino, nel sorgere del sole o nello sbocciare di un fiore impariamo a cogliere un richiamo a Lui.

La necessità del sacrificio

Un altro tema che entra prepotentemente nella vita della famiglia è il tema della carriera. Non ho alcuna riserva moralistica e trovo del tutto legittimo che si cerchi di crescere dal punto di vista del ruolo e della posizione lavorativa. Occorre tuttavia considerare che gli avanzamenti di grado, di solito, comportano anche impegni più gravosi. Nelle aziende serie, a coloro che occupano posti più elevati all’interno dell’organigramma societario è giustamente chiesto di più, se non come quantità di tempo da dedicare al lavoro, ad esempio come viaggi o come numero di clienti da seguire, certamente come responsabilità. Le decisioni relative alla carriera devono pertanto essere valutate con grande accuratezza, perché hanno molte ricadute sulla vita familiare, sia in termini positivi sia in termini negativi.
Naturalmente le vicende relative alla carriera di un marito o di una moglie producono effetti anche sulla vita economica della famiglia. Forse, da questo punto di vista, occorre tornare a riflettere sulla necessità del sacrificio. Non si può pensare di crescere come famiglia senza sacrificare qualcosa. La nascita di un nuovo bambino, ad esempio, richiede ai genitori una certa revisione del proprio stile di vita, come anche la decisione di iscrivere i figli a una scuola paritaria o trascorrere alcuni giorni di vacanza con le famiglie assieme alle quali si cammina. Magari la mamma dovrà accettare di andare dal parrucchiere un po’ più raramente e il papà dovrà accontentarsi di un solo maglione invece che di tre.
Quando il criterio che governa la vita di una coppia è l’aspirazione ad avere tutto ciò che hanno gli altri, necessariamente la vita familiare finisce per perdere intensità e profondità. Anche in questo caso non intendo difendere una visione moralistica delle ricchezze, ma piuttosto portare alla luce la necessità di maturare giudizi più profondi rispetto a quelli che tante volte ci determinano. L’epoca in cui viviamo ci obbliga a una essenzialità. È molto importante che ce ne rendiamo conto, anche perché la capacità di vivere essenzialmente, dando valore a ciò che realmente conta, diventerà un segno molto forte da parte dei cristiani.

I figli non ci appartengono
Vorrei soffermarmi infine sul complesso itinerario educativo che i genitori devono compiere nell’accompagnare i figli, giorno dopo giorno. Occorre innanzitutto riconoscere e accettare di non essere i padroni dei propri figli. Così, a un certo punto, si impara anche ad accettare che le loro strade siano diverse da quelle che si erano immaginate, preventivate e desiderate. È giusto che la vita delle nostre famiglie sia governata da un orizzonte ultimo di pace, ma non possiamo pensare che la microstoria della nostra famiglia, come anche la macrostoria del mondo, si sviluppi esattamente come vorremmo. Dobbiamo accettare che la vita non sia determinata dai nostri schemi, dalle nostre immaginazioni e dalle nostre comprensioni.
Imparare ad accogliere la volontà di Dio non significa rinunciare, cedendo al cinismo o alla pigrizia, ma è piuttosto un aprirsi alla scoperta che il disegno di Dio procede secondo modalità e inizi che non sono nostri. I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie (Is 55,8). Rendersene conto e accettarlo veramente non è per niente facile, soprattutto nel rapporto con persone alle quali vogliamo bene e alle quali ci sentiamo profondamente legati. La profondità del nostro affetto moltiplica infatti il nostro disagio e la nostra fatica. Alle volte siamo talmente convinti che i nostri desideri corrispondano al bene delle persone che amiamo da non riuscire a capacitarci di come possano non riconoscerlo anche loro. Occorre allora che entriamo in un’ottica nuova e più sana che dobbiamo recuperare ogni giorno, dato che tendiamo continuamente a smarrirla. Per me questo accade solo nel dialogo con Dio.

La profondità degli affetti può moltiplicare a volte il disagio e la fatica nel viverli. Occorre entrare in un’ottica nuova e più sana. E questo accade solo nel dialogo con Dio.

La preghiera mi aiuta a ricordare che il mondo non può essere governato da me e mi consente di riconoscere che Dio può permettere il male per richiamare al bene.

Le ragioni dei “sì” e dei “no”

Molti genitori mi chiedono quale sia, nell’ottica di una buona educazione dei propri figli, il confine tra l’accondiscendenza e la necessaria correzione: fino a che punto è giusto assecondare i nostri figli che avanzano richieste che non condividiamo e quando è invece necessario opporsi? Credo che sia impossibile tracciare un confine in modo astratto, pretendendo di individuare regole applicabili in qualunque situazione. Sarebbe assurdo, ad esempio, stabilire che a diciassette anni un figlio debba tornare a casa non più tardi delle undici, mentre a diciotto deve essergli consentito di restare fuori fino a mezzanotte. Non possiamo stabilire uno schema a priori, perché di fronte a noi ci sono delle persone, che sono i nostri figli. Più che le regole prefissate, è importante il dialogo e il riferimento affettivo che costruiamo con loro nel tempo. Sono importanti i gesti e i segni. Una madre e un padre che rimanessero fuori casa dalla mattina alla sera, sette giorni alla settimana, dicendo al­ loro bambino di rimanere davanti alla televisione, non potrebbero stupirsi se quel bambino, diventato adolescente, pretendesse di uscire tutte le sere con gli amici e faticasse a partecipare costruttivamente alla vita familiare.

Le crisi di matrimoni alle quali assistiamo tutti i giorni influiscono inevitabilmente sulla crescita dei ragazzi e sul rapporto tra genitori e figli. Per questo, quando parliamo dell’educazione dei giovani, dobbiamo anzitutto domandarci quale esperienza affettiva essi stiano vivendo, da chi si riconoscono amati e da chi invece traditi, a quali litigi e discussioni stanno assistendo, quali delusioni stanno incontrando. Spesso il cinismo mostrato dai ragazzi deriva dal disagio che essi vivono in famiglia, cioè dalla superficialità, dalla freddezza e dalla disumanità che caratterizza il rapporto fra i genitori.
La nostra vita non è un meccanismo. Perciò non è automatico che un figlio diventi un vandalo, oppure apatico e privo di ideali, se uno dei suoi genitori se ne va di casa. È tuttavia evidente che nelle famiglie si è creato un vuoto che si sta allargando giorno dopo giorno. Dobbiamo tenerlo presente quando riflettiamo sugli effetti del ricorso alla pratica dell’utero in affitto e alle altre possibilità offerte dall’ingegneria genetica: che cosa accadrà ai bambini nati grazie a questi metodi? Possiamo pensare che sia priva di conseguenze la scelta di spezzare la linea genitoriale?

Le difficoltà dei nostri figli devono diventare una domanda sul nostro modo di essere marito e moglie. I problemi non devono abbatterci, ma provocarci. In ogni caso, quando pure la situazione ci apparisse compromessa, non dobbiamo disperare: anche quello che sembra irrimediabilmente perduto, in realtà è solamente messo in discussione, posto tra parentesi per essere nuovamente preso in esame più avanti. Da questo punto di vista è molto importante il coraggio della pazienza: un rifiuto che in un certo momento può produrre una reazione terribile, qualche mese più avanti può essere invece accettato, digerito e magari perfino amato.
In ogni caso le arrabbiature dei figli non devono costituire un ricatto per i genitori. Certi “no” devono essere detti, sapendo bene che si corrono dei rischi. Il risentimento dei figli non deve spingere il padre e la madre a indietreggiare, ma stimolarli a spiegarsi il più possibile, a chiarire le ragioni dei loro “sì” e dei loro “no”.

Educare assieme

Le difficoltà di dialogo che a volte si vengono a creare nelle nostre famiglie costituiscono un’occasione propizia per ricordarci che un papà e una mamma non possono e non devono essere l’unico soggetto educativo dei loro figli. Come genitori, infatti, dobbiamo cercare di capire chi siano gli amici dei nostri ragazzi e dobbiamo pregare molto per le loro amicizie. Non si può ridurre l’avventura della vita a statistica, ma probabilmente non sbaglierebbe di molto chi affermasse che un’amicizia vera è già il cinquanta o sessanta per cento del cammino di un uomo. Le compagnie hanno un’influenza enorme sui ragazzi, come anche i social media, la televisione e, ancora di più, internet. Molte reazioni dei nostri figli sono indotte da un mondo che è esterno alla famiglia e che è sempre più forte. Si comprende allora quanto sia importante la vicinanza di altre famiglie. Per essere buoni educatori occorre qualcuno con cui consigliarsi, consultarsi, interrogarsi a vicenda e anche sostenersi. Come ebbe a dire una volta papa Francesco: «Per educare un figlio ci vuole un villaggio».
In sintesi, mi sento di invitare a ragionare sui tempi lunghi. Facendo attenzione a non considerare soltanto le incomprensioni e le ribellioni di una sera o di un certo periodo della vita dei nostri figli, dobbiamo puntate a instaurare un dialogo che può e deve continuare per mesi e per anni. Dobbiamo anche cercare la collaborazione di altre figure, coetanee dei nostri ragazzi o, meglio ancora, adulte, che emergono nel tempo e che possono risultare significative. Dobbiamo infine cercare le strade che possono entusiasmare e mettere in moto i nostri ragazzi, le passioni che possono avvincerli.

Estratti da un incontro di mons. Massimo Camisasca con un gruppo di famiglie. Corridonia, 18 marzo 2017.

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